Resumo
L’articolo intende esaminare le violenze sessuali verificatisi nei campos di prigionia cileni durante il regime di Pinochet (1973-1989) attingendo alla definizione di Stato d’eccezione di Giorgio Agamben. Con l’obiettivo di mostrare la continuità tra la svolta neoliberista del Cile post-golpe e la separazione tra mascolinità e femminilità nei campi di prigionia, verranno analizzate sia le dichiarazioni delle vittime – uomini e donne – sia le testimonianze pubblicate dalle Commissioni di Verità negli anni successivi al regime militare. In questo modo si sottolineerà la funzione biopolitica delle violenze sessuali atte a fissare sul corpo delle vittime un’identità di genere definita e a cui doveva corrispondere un processo di separazione tra sfera privata e sfera pubblica. Infine, l’articolo spiegherà in che modo le violenze sessuali furono il frutto di una più vasta operazione di rifondazionepolitica del Cile successivo al golpe.
Palabras chave
Spazi di eccezione nel Cile di Pinochet: un’analisi di genere delle violenze sessuali nei centros de detención (1973-1989)
Bruno Walter Renato Toscano
Spazi di eccezione nel Cile di Pinochet: un’analisi di genere delle violenze sessuali nei centros de detención (1973-1989)
Sémata: Ciencias Sociais e Humanidades, no. 33, 2021
Universidade de Santiago de Compostela
Spaces of Exception n Pinochet's Chile: A Gender Analysis of Rapes in Centros de Detención (1973-1989)
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Received: 14/01/2021
Accepted: 18/10/2021
Riassunto: L’articolo intende esaminare le violenze sessuali verificatisi nei centros de detención cileni durante il regime di Pinochet (1973-1989) attingendo alla definizione di Stato d’eccezione di Giorgio Agamben (1995). Con l’obiettivo di mostrare la continuità tra la svolta neoliberista del Cile post-golpe e la separazione tra mascolinità e femminilità nei campi di prigionia, verranno analizzate sia le dichiarazioni delle vittime – uomini e donne – sia le testimonianze pubblicate dalle Commissioni di Verità negli anni successivi al regime militare. In questo modo si sottolineerà la funzione biopolitica delle violenze sessuali atte a fissare sul corpo delle vittime un’identità di genere definita e a cui doveva corrispondere un processo di separazione tra sfera privata e sfera pubblica. Infine, l’articolo spiegherà in che modo le violenze sessuali furono il frutto di una più vasta operazione di rifondazione politica del Cile successivo al golpe.
Parole chiave: Cile; Stupro; Stato d’eccezione; Pinochet; Genere.
Abstract: This article aims to examine the sexual violence occurred in Chilean centros de detención during the Pinochet regime (1973-1989) by drawing on Giorgio Agamben's definition of the State of Exception (1995). With the intent of showing the continuity between the Neoliberal turn of post-Pinochet Chile and the separation of masculinity and femininity in the prison camps, both the statements of the victims – men and women – and the testimonies published by the Commissions of Truth in the years following the military regime will be analyzed. In this way, the biopolitical purpose of sexual violence will be emphasized: this approach intended to fix on the victims' bodies a defined gender identity and to which a process of separation between private and public spheres had to correspond. Finally, the article will explain how sexual violence the result of a broader operation of political refounding of Chile after the coup was.
Keywords: Chile; Rape; State of exception; Pinochet; Gender Studies.
Sommario
Introduzione
La «rifondazione» biopolitica del Cile tra repressione e neoliberalizzazione
Per un superamento dei limiti analitici delle violenze sessuali nei centri di detenzione cileni: una proposta di indagine
Le violenze sessuali come violenze di genere: un’analisi degli stupri cileni
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Da pubblico a privato: la violenza sessuale come disciplinamento dei corpi femminili
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Femminilizzare e depoliticizzare: lo stupro degli uomini nei centros de detención
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Tra vittime e carnefici: il caso delle collaborazioniste
Conclusioni
INTRODUZIONE
Quando nel settembre 1973 il Governo Allende venne rovesciato dal golpe militare in Cile, si assistette alla repressione violenta dei sostenitori del vecchio governo socialista. In linea con quella tra le «immagini più ricorrenti […] lungo tutta la storia dell’America Latina» (Zanatta, 2004: 107), quella del nemico interno, anche il regime di Pinochet si confrontò con gli oppositori politici, ponendosi a capo di una lotta intestina che ebbe l’obiettivo di distruggere il «”morbo” marxista» (Zanatta, 2004: 129).
La Junta de Gobierno militare che sostituì Allende e di cui faceva parte Pinochet subordinò a sé la costituzione cilena del 1925 e concentrò su di sé il potere legislativo ed esecutivo, lasciando soltanto in apparenza il potere giudiziario in mano alla Corte Suprema (Barros, 2004: 105-107). Nel primo anno della dittatura, la Junta militare operò in un vuoto legislativo e istituzionale (Barros, 2004: 50), un aspetto che le consentì di realizzare due dei suoi obiettivi principali: avviare una progressiva neoliberalizzazione del mercato cileno (Macias, 2013: 114) e annichilire ogni forma di resistenza che avrebbe potuto minacciare la tenuta del governo militare. Mentre da una parte il governo cileno cominciò ad apportare modifiche alla struttura economica del paese, «imponendo […] la supremazia del libero mercato e la subordinazione dell’attività economica ai flussi finanziari internazionali» (Vergara, 1993: 170), dall’altra diede vita ad una crociata, definita dalla Junta «guerra interna» (Wyndham e Peter, 2010: 32), che nell’arco di diciassette anni di dittatura causò, secondo le stime delle indagini del Governo Bachelet I (2006-2010), la morte o la sparizione di circa 3.216 individui, l’imprigionamento e la tortura di circa 41.626 donne e uomini cileni (Borzutzky, 2017: 191). Divennero importanti per il regime i luoghi di prigionia per detenuti politici, ovvero i centros de detención (o campos de prisioneros), gestiti dalla Dirección de Inteligencia Nacional (DINA), il corpo di polizia segreta nato nel 19741 con lo scopo di «raccogliere tutte le informazioni a livello nazionale, provenienti da differenti campi di azione […] per la formulazione di politiche, pianificazioni e per l’adozione di misure [utili alla] sicurezza nazionale e lo sviluppo del paese» (Ministerio del Interior, 1974: artículo 1). Come riconosciuto dalla Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación nel 1990, il vuoto legale entro cui si inserì la creazione della DINA contribuì a renderlo un corpo «al di sopra della legge» (Aguilar, 2015: 46) che fino allo scioglimento del 13 agosto 1977 (Spooner, 1999: 114) distrusse buona parte dei partiti della coalizione di Unidad Popular (UP) di Allende2. Ma oltre ad essere ritenuta responsabile di buona parte degli omicidi dei dissidenti politici, la DINA è nota per aver utilizzato lo stupro come forma di tortura nei centri di detenzione. Sono stati numerosi gli studi sul tema delle torture nei centros de detención del regime, molti condotti a seguito del lavoro di due commissioni di verità del Cile post autoritario, la Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación (Informe Rettig) del 1990-1991 e la Comisión de Prisión Politica y Tortura (Informe Valech), che ha lavorato dal 2003 al 2004 e dal 2010 al 2011.
L’obiettivo del presente articolo è proporre una differente lettura delle violenze sessuali nei centri di detenzione cileni, sottolineando come tali atti rappresentino una «strategia di riproduzione» (Segato, 2003: 113) patriarcale del regime volta a produrre una divisione simbolica di genere tra vittime e carnefici, e che vede nella femminilizzazione dei detenuti un chiaro mezzo di depoliticizzazione. Concettualmente, per divisione di genere intendiamo quelle manifestazioni dei rapporti di potere all’interno delle «relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi» (Scott, 1986: 463-473) e non la divisione biologica tra uomo e donna. In questo senso, è possibile guardare all’uso sistematico delle violenze sessuali come il contraltare di una politica di «rifondazione» (Donoso, 2004: 75) neoliberale del Cile da parte di Pinochet basata sulla netta divisione tra spazio pubblico maschile e spazio privato femminile.
L’articolo è quindi diviso in tre differenti paragrafi. Il primo paragrafo sottolinea le continuità e le discontinuità tra il governo Allende e il regime militare sia dal punto di vista della storia politica del paese, sia dal punto di vista della dimensione di genere nella partecipazione politica del paese. Nel secondo paragrafo, si evidenzia la difficile categorizzazione delle violenze sessuali nei centri di detenzione cileni, proponendo di fare ricorso, partendo da una analisi di genere, alle teorie politiche Giorgio Agamben raccolte in Homo Sacer per comprendere in che modo i centros de detención possano essere visti come una effettiva “spazializzazione dello stato di emergenza” che ha permesso al regime militare di depoliticizzare le vittime mediante lo stupro. Nel terzo paragrafo, si analizzano tre diverse categorie di vittime nei centri di detenzione: le donne, gli uomini e le collaborazioniste. Facendo riferimento alle parole delle vittime e delle collaborazioniste già analizzate dalla storiografia recente, viene qui sottolineato come il rapporto dei carnefici con la “vita nuda” dei prigionieri palesi il cosciente tentativo da parte del regime di distruggere il precedente regime Allende attraverso la violenza sessuale a danno dei «nemici interni», e in cui femminilizzazione e mascolinizzazione diventano strategie patriarcali per dividere nettamente lo spazio pubblico della politica e lo spazio privato della domesticity.
LA «RIFONDAZIONE» BIOPOLITICA DEL CILE TRA REPRESSIONE E NEOLIBERALIZZAZIONE
Pinochet tenne a precisare fin da subito di voler «ristabilire la normalità nel paese» eliminando il vecchio «regime marxista» (Pinochet, 1973: 3-4) e in questo senso il regime militare rappresentò una frattura non indifferente nel processo democratico avviato dall’UP di Allende. Da un punto di vista istituzionale, la conformazione del paese cambiò radicalmente: il potere decisionale del leader militare venne rafforzato progressivamente, soprattutto grazie al ricorso da parte della Junta allo stato de sitio fin da subito equiparato allo estado o tiempo de guerra3, cosa che garantì maggiore discrezionalità ai tribunali militari, al Consejos de Guerra (Monsálvez Araneda, 2012: 11) e alle forze dell’ordine (Barros, 2004: 47-48). La società cilena venne militarizzata e l’enorme arbitrarietà dei tribunali militari permise l’esecuzione o la sparizione dei soggetti ritenuti pericolosi, ovvero le «forze ribelli o sediziose organizzate o che stanno per organizzarsi» (Ministerio de Justicia, 1974)4. I cittadini ritenuti rei di avere attentato alla tenuta dello stato potevano ricorrere ai diritti costituzionali, come il recurso de amparo (il ricorso legale che impediva la detenzione in mancanza di prove a carico dell’imputato) ma lo stato de sitio finì con il rendere arbitrario il rispetto delle norme costituzionali da parte dei tribunali. In questo modo, i diritti di cittadinanza vennero disattesi e in centinaia vennero arrestati dai militari e detenuti in campi di prigionia segreti senza passare dai tribunali. Nonostante l’ammissione esplicita del nuovo governo di voler restaurare il regime costituzionale, il governo di Pinochet finì con il subordinare la Costituzione cilena del ’25 al potere legislativo della Junta, per poi destituirla a partire dal settembre 1975 e sostituendola con un’altra costituzione nel 1980 (Becker, 1993: 235, 239). In questo modo, l’uso dello stato d’eccezione dello stato de sitio rimase del tutto arbitrario e, come ha correttamente sottolineato Edward Snyder (1995: 259), tale situazione permase fino al 1988.
A cambiare radicalmente, però, non fu soltanto la situazione istituzionale-politica: da un punto di vista sociale, a venire meno fu una certa partecipazione politica ed economica da parte delle donne che avevano accolto o contrastato apertamente il governo Allende. Ciò non vuol dire non vi siano delle continuità con il Cile post-golpe: anche prima del golpe del ’73 sussisteva nella sfera politica cilena una divisione netta tra il ruolo delle donne e degli uomini nella società cilena. Il Cile degli anni Settanta è un paese profondamente maschilista, tanto che sia i partiti di destra, sia i partiti di sinistra «credevano che essere una donna significasse essere una moglie e una madre, una donna devota disposta a sacrificarsi per il bene dei figli e della famiglia» (Power, 1997: 251). Il governo UP di Allende rimase concentrato sulle problematiche della classe operaia – di cui le donne rappresentavano una componente minoritaria5, la quale veniva descritta come essenzialmente maschile e svirilizzata da un mercato del lavoro che non permetteva loro di assolvere al loro ruolo da breadwinner (Power, 1997: 256). Sebbene formalmente non vi fossero limitazioni d’accesso alle donne nell’attività politica, soltanto nel 1972 il governo di UP provvide a concedere uno spazio politico alle donne con la creazione della Secretería Nacional de la Mujer (Power, 2002: 26), mentre buona parte delle militanti figuravano maggiormente tra le file del MIR e di altri movimenti studenteschi6. Nonostante Salvador Allende denunciò il maschilismo dei compagni di UP7, le donne ebbero difficoltà ad essere cooptate dalla sinistra cilena (Townsend, 1993: 55). Tuttavia, mentre per gli alti vertici del governo dal 1972 diventa un problema dirimente quello di non alienarsi le simpatie dell’elettorato femminile appartenente alla working class, la destra cilena aizza le donne delle classi medie contro la sinistra, quest’ultima accusata di non riuscire a garantire alle donne la possibilità di poter crescere adeguatamente i figli della nazione a causa della crisi economica (Power, 2002: 5,11; Townsend, 1993: 57-58). Nascono così nel 1972 formazioni politiche di destra come Poder Feminino (PF), che cooptarono buona parte delle donne delle classi più elevate, finendo poi per trovare manforte anche tra le donne della working class (Power, 2002: 6-7). Ciononostante, il golpe dell’11 settembre ’73 rappresentò una svolta nel segno della discontinuità: tutte le organizzazioni affiliate al governo Allende o di sinistra vennero messe al bando, le associazioni femminili come PF vennero sciolte, la violenza del regime si abbatté duramente sulla working class e l’ascesa del neoliberismo in Cile comportò un netto peggioramento dello stato delle lavoratrici (Tinsman, 2004: 261-297). Nonostante, sia prima che dopo il golpe, il sentimento diffuso da parte dei cileni era quello di una femminilità concepita come essenzialmente vincolata alla maternità, il governo militare fece non solo propagandisticamente della donna cilena la figura chiave della ricostruzione morale del paese8, ma nei fatti le impedì l’accesso alla sfera pubblica. Di questa differenza privato/pubblico, maschile/femminile i campi di prigionia furono uno degli elementi più violenti del Cile autoritario, che resero esplicito un controllo biopolitico delle vittime da parte del regime.
PER UN SUPERAMENTO DEI LIMITI ANALITICI DELLE VIOLENZE SESSUALI NEI CENTRI DI DETENZIONE CILENI: UNA PROPOSTA DI INDAGINE
I luoghi di detenzione in cui si consumarono le torture e le violenze sessuali nel Cile di Pinochet furono molti: secondo le stime del centro Memoria Viva, un archivio digitale creato dal collettivo Proyecto Internacional de Derechos Humanos, il numero supera i 1100 centri che comprendono campos de prisioneros creati appositamente nel 1973, edifici pubblici utilizzati dai militari per le torture e caserme delle forze dell’ordine9. Alcuni di questi centri vennero utilizzati principalmente tra il 1973 e il 1975, ma fino al 1989 molti di essi rimangono attivi anche dopo lo scioglimento della DINA nel 1977 e la sua sostituzione con la Central Nacionales de Informaciones (CNI)10. Di questi centri di reclusione, cinque sono quelli che ricorrono più spesso nelle testimonianze delle vittime di abusi sessuali e che si trovano a Santiago: Tejas Verde, La Discotéque o Venda Sexy, Londres 38, Tres y Quatros Alamos e Villa Grimaldi. Secondo la testimonianza di Luz de las Nieves Ayress, ed ex militante di un braccio socialista cileno dell’Ejercito de Liberación Nacional de Bolivia ascoltata durante l’Informe Rettig, risulta chiaro come le vittime venissero rinchiuse in più campi di prigionia da parte della DINA: la testimone, arrestata ripetutamente, dichiarò infatti di aver subito violenze di varia natura presso lo Stadio cileno, Calle Londres, Tejas Verdes e Tres Alamos, fino a che la donna raggiunse Cuba dopo l’espulsione dal Cile nel 1976 (Díaz Muñoz, 2018). Sebbene non risulti chiaro in che modo la DINA scegliesse preventivamente dove rinchiudere le vittime, appare subito però come la violenza sessuale fosse una pratica sistematica utilizzata dai torturatori in buona parte dei centri di reclusione.
A partire dalle commissioni di verità numerosi studiosi hanno esaminato le violenze sessuali da parte della DINA da diversi settori scientifico-disciplinari, ma molteplici sono state le difficoltà riscontrate. Innanzitutto, la difficile categorizzazione delle violenze sessuali ad opera del regime: lontani da violenze con fini genocidi, come nel caso degli stupri nazisti a danno delle donne ebree o quelli registrati in Bosnia-Erzegovina tra il 1991 e il 1994, gli stupri verificatisi in Cile sfidano la definizione di stupri di guerra. Differentemente da casi come le violenze sessuali durante la guerra etnica in Rwanda o il già citato caso della Bosnia-Erzegovina, non ci si ritrova in uno scenario di guerra, il quale «ha luogo, per definizione, tra combattenti, regolari e irregolari, e in vista del controllo su un territorio» (MacKinnon, 2012: 111).
Tuttavia, in Cile le violenze sessuali sono militarizzate e nei campi di concentramento si verificano comportamenti ad opera dei corpi militari non dissimili da quelli che si verificano in uno scenario di guerra. Come suggerito dalle prime interviste alle vittime fatte dall’antropologa cilena Ximena Bunster alla fine degli anni Ottanta (Bunster-Burotto, 1985), lo stupro contribuisce anche a rafforzare la mascolinità̀ nella costruzione sociale dei soldati, elemento che si ritrova in molti casi di violenze sessuali militarizzate lungo la storia del Novecento11. Ma il caso cileno è contraddistinto da una serie di violazioni protrattesi per lungo periodo, gestite capillarmente dai corpi militari statali e controllate da personale medico e figure governative del regime militare (Macias, 2013: 117).
Sebbene questa caratteristica sia in parte assimilabile al caso delle violenze sessuali del 1992 in Bosnia, dall’altra sussiste il problema di non poter categorizzare le violenze sessuali in Cile su base etnica, dato che le vittime non appartengono a nessuna categoria etnico-razziale diversa dai violentatori (Corradi, 2007: 9). Invece che una connotazione etnica delle vittime, in Cile ne ritroviamo una essenzialmente politica, elemento che quindi conferma l’esplicita necessità da parte del regime di annientare il nemico interno caratterizzato dalla propria vicinanza al vecchio governo Allende. Anche quando ad essere violentati sono soggetti che non hanno mai avuto un ruolo politico nel governo precedente, possiedono comunque un legame affettivo o di parentela con i sospettati politici. Inoltre, come sottolineato da Benedetta Calandra, considerate le percentuali relativamente basse di donne vittime di violenze, risulta impossibile ricorrere alla categoria dello «stupro di massa» (Calandra, 2009: 59). È quindi chiaro come il caso delle violenze sessuali in Cile durante il regime di Pinochet sia diventato difficilmente categorizzabile da parte degli studiosi, palesando quindi elementi di continuità e discontinuità nelle ricostruzioni storiche dello stupro in epoca contemporanea.
Un ulteriore problema significativo è quello delle fonti. Buona parte delle ricostruzioni condotte fino ad ora ha fatto infatti riferimento ai risultati dell’Informe Valech I (2003-2004), il quale, differentemente dalla Informe Rettig, ha cercato di includere un’analisi di genere nell’esaminare le violenze a danno delle donne e degli uomini cileni (Hyner, 2009: 64), dedicando una parte apposita dei risultati della commissione di verità alle violenze sessuali. Il limite di entrambe le Commissioni di Verità è stata la decisione di secretare le testimonianze, inaccessibili sia per gli studiosi sia per i testimoni, a cui si è aggiunta la tendenza di molte vittime a non parlare degli orrori subiti nei campi di detenzione. Ciò avviene soprattutto nel caso degli uomini vittime di violenza, i quali si sono mostrati reticenti a parlare pubblicamente degli abusi per il timore di vedere minata la propria eterosessualità (Townsend, 2018.: 64). Questo ha creato molti problemi per i ricercatori nel ricostruire le violenze sessuali verificatesi nei campi, costringendoli a concentrare le proprie analisi sulle testimonianze dei sopravvissuti disposti a parlare delle violenze subite (Kuntsman e Torres, 2008) e sui documenti raccolti da alcune organizzazioni per i diritti umani che, negli anni della dittatura, cercarono di supportare i cileni e le cilene vittime di violenze ed estradati o fuggiti dal paese (Townsend, 2018: 162). A queste difficoltà, va aggiunta anche la tendenza di chi si è occupato del tema a concentrare l’attenzione sullo stupro a danno delle donne, separando da esso il tema delle violenze sessuali sugli uomini.
Sebbene ci sia stato un primo tentativo da parte Ximena Bunster di sottolineare come le violenze sessuali nei campi di concentramento fossero uno strumento utilizzato per rafforzare l’identità mascolina del regime e per colpire i nemici interni, a questa prima analisi non è seguito uno studio di genere approfondito circa il significato politico degli stupri (Enloe, 2000: 129).
Da parte degli storici, invece, è emerso l’interesse di utilizzare un approccio di genere per comprendere la natura delle violenze sessuali che si consumarono principalmente nei primi anni della dittatura cilena (Calandra, 2009.; Humanas, 2005; Townsend, 2018) e le risposte delle due commissioni di verità sul tema degli stupri di regime (Hiner, 2009: 50-74; Macias, 2013). I lavori di Michel Foucault e Giorgio Agamben, allo stesso modo, sono stati ampiamente utilizzati nel campo delle Scienze umane per interpretare il ruolo delle torture dei campos de prisioneros del regime di Pinochet, i quali hanno consentito di analizzare i rapporti di potere alla base della relazione carnefice-vittima a partire dalla categoria della biopolitica. Questi studi hanno focalizzato l’attenzione principalmente sul tema più generale delle torture all’interno dello stato d’eccezione, facendo ricorso all’Homo Sacer, definizione che Agamben riprende dal diritto romano per definire il soggetto privo di diritto all’interno dello stato d’eccezione (Agamben, 1995: 126-127).
Tuttavia, da questi studi non è emerso alcun tentativo di coniugare il lavoro di Agamben agli studi di genere alla luce delle interviste e delle testimonianze rilasciate dalle vittime. Alla base di questa carenza c’è la «gender-blindness» (Mills, 2008: 118) della vasta produzione filosofica di Giorgio Agamben, la quale ha mancato di esaminare, come sottolineato da Ronit Lentin (2006: 463-473), le relazioni di genere presenti in situazioni simili a quelle qui esaminate. Ma sia nel caso degli storici che degli scienziati politici, non è affiorato alcun tentativo di analizzare tali violenze come parte di un quadro politico rispondente all’esigenza del governo militare non di costruire una nuova nazione, ma di gettare le basi per un «re-building» (Taylor, 2006: 76) del Cile fondato su rapporti di genere eteronormativi e patriarcali12.
Pur accogliendo i suggerimenti di Traverso circa la non trasferibilità meccanica delle categorie di Foucault e Agamben «da una disciplina all’altra» (Traverso, 2009: 530), si è qui dell’avviso che l’utilizzo delle categorie dello stato di eccezione e di Homo Sacer aiuti a comprendere e ad interpretare le violenze sessuali in Cile come parte di una strategia biopolitica del regime, superando alcuni dei limiti interpretativi degli storici e degli scienziati politici. Nella dimensione biopolitica del rapporto stato-corpo, secondo Agamben (Agamben, 1995), diversamente dalla concezione antica della partecipazione politica che poneva al centro il soggetto in quanto bíos (ovvero la forma di vita sociale come luogo preposto alle relazioni sociali) separata dalla vita come zoé (considerata meramente a partire dai suoi aspetti biologici), quando lo stato moderno assume la prerogativa di stabilire uno stato d’eccezione tale divisione non è più netta. Al contrario, «lo spazio della nuda vita, situato in origine al margine dell’ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico, e esclusione e inclusione, esterno e interno, bíos e zoé, diritto e fatto entrano in una zona di irriducibile indistinzione» (Agamben, 1995: 12). In questo senso, ciò che accade secondo Agamben è che il potere biopolitico dello stato in età moderna si manifesta nella prerogativa di poter ricorrere allo stato d’eccezione al fine di poter escludere fino ai margini dell’ordinamento (secondo un processo denominato “esclusione inclusiva”) alcuni individui, mantenendoli però all’interno del complesso sociale, così da poter intrattenere una relazione con la loro vita nuda, rendendoli “uccidibili”.
Alla radice delle analisi di Agamben, si trovano le teorie elaborate principalmente in “Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität” del 1992 (Schmitt, 1972) da Carl Schmitt, giurista tedesco che negli anni Venti del Novecento per spiegare lo stato d’eccezione Schmitt ricorre a due categorie: decisione e norma, entrambe costituenti il diritto. Queste due categorie sono emanazione di un sovrano che sta al di sopra di ogni sistema normativo e che in condizioni ordinarie fa prevalere la norma alla decisione. Quando sussistono situazioni di crisi, la norma viene ridotta al minimo e subordinata alla decisione, quest’ultima vista da Schmitt come esclusiva prerogativa del sovrano (Schmitt, 1972: 36-39). Se per Schmitt lo stato d’eccezione rimane nell’ambito giuridico, per Agamben è l’elemento contrapposto alla legge. Esso si palesa quando il sovrano ritiene necessario sospendere il diritto e utilizzare lo stato d’eccezione per ricorrere alla violenza indiscriminata senza coinvolgere la sfera giuridica (Agamben, 1995: 66). In questo senso, diversamente da Schmitt, Agamben sottolinea come lo stato d’emergenza sia una categoria di per sé stessa «illocalizzabile» (Agamben, 1995: 45) che non ha una dimensione legale neanche quando essa assume le fattezze di una «localizzazione visibile permanente» (Agamben, 1995: 45), ovvero, il campo di concentramento. Quest’ultimo altri non è che la spazializzazione della eccezionalità
«che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola. In esso lo stato di eccezione, che era essenzialmente una sospensione temporale dell'ordinamento sulla base di una situazione fattizia di pericolo, acquista ora un assetto spaziale permanente che, come tale, rimane, però, costantemente al di fuori dell'ordinamento normale (Agamben, 1995: 188).»
Nel contesto della dittatura cilena, il ricorso quasi ininterrotto allo stato de sitio esplica quindi come la norma costituzionale che ne garantiva l’applicazione per un massimo di tre mesi, nei fatti, esce fuori dall’ordinamento legale e diventa semplice emanazione della Junta. Come sottolinea correttamente Renato Cristi Becker, per lungo tempo «della Costituzione del ’25 non rimangono soltanto che frammenti» (Cristi Becker, 1993: 239)13. In questo modo, spogliato dei diritti di cittadinanza, l’Homo Sacer può essere posto all’interno di un campo, uno spazio di eccezione dove «ad un ordinamento senza localizzazione (lo stato di eccezione, in cui la legge è sospesa) corrisponde ora una localizzazione senza ordinamento (il campo, come spazio permanente di eccezione)» (Agamben, 1995: 197) e in cui lo stato regola vita e morte della vita nuda del soggetto.
LE VIOLENZE SESSUALI COME VIOLENZE DI GENERE: UN’ANALISI DEGLI STUPRI CILENI
I rapporti tra figure statali e la vita nuda dell’Homo Sacer non sono scevri da relazioni da finalità politiche. Come ricordato da Teresa Macias, facendo riferimento all’articolo “Racism, Empire and Torture” (Razack, 2009) della studiosa femminista postcoloniale Sherene Razack , «il corpo del torturato è […] l’homo sacer: un corpo non escluso ma strategicamente incluso nella misura in cui costituisce il terreno per la costruzione della nazione e del soggetto» (Macias, 2013:120). Diventa quindi chiaro come il predisporre una «localizzazione senza ordinamento» (Agamben, 1995: 197) nel contesto cileno assume un carattere fondamentale se consideriamo l’intento del governo militare di distruggere il precedente governo democratico e rifondarne uno nuovo, patriarcale e neoliberale. Per comprendere in che modo questi rapporti di potere biopolitici possedessero un forte connotato di genere, procediamo con l’analisi di tre figure al centro delle riflessioni sul tema: le donne e gli uomini violentati e le collaborazioniste.
Da pubblico a privato: la violenza sessuale come disciplinamento dei corpi femminili
Esaminando le poche testimonianze rese pubbliche dalla Commissione Valech, ritornano alcuni elementi fondamentali che contribuiscono a comprendere come, nel rapporto tra stupratore e vittima (in questo caso, di sesso femminile), venisse posto al centro della violenza carnale un attacco allo status della violentata: come infatti registrato dalla storica Hillary Hiner (2015), che ha analizzato le testimonianze orali raccolte negli archivi a partire dagli anni Duemila, in particolare l’Archivo Oral del Centro de Documentación del Museo de los Derechos Humanos y la Memoria e l’Archivo Oral de la Corporación Parque por la Paz-Villa Grimaldi, non solo appare evidente l’esistenza di un trattamento diverso riservato alle donne delle classi medie cilene rispetto a quelle delle classi popolari, ma anche che le vittime delle violenze sessuali venivano accusate dai torturatori di aver superato quel confine di rispettabilità patriarcale da “buona madre”, “buona moglie” e “donna di casa” che il regime cercò di ripristinare (Hiner, 2015: 881). L’intervista rilasciata presso l’Archivos de la memoria en Chile nel giugno del 2013 da una delle vittime recluse a Villa Grimaldi, Arinda Ojeda, mostra infatti questa continuità tra violenza verbale e violenza sessuale, sottolineando la natura machista delle violenze da lei subite:
«E, naturalmente, qui c'era, vi dico, l'espressione machista in tutto il suo splendore. [....] Ti picchiavano (la donna elenca con le dita della mano sinistra, tirando ogni dito giù con la mano destra) perché eri una puttana, per essere stata una cattiva madre, per aver ficcato il naso nelle cose da uomini - perché, quelle erano cose da uomini, non da donne - (sorride). Questo da una parte, perché dall’altra si abusava molto […] sessualmente (Hiner, 2015: 880)».
Secondo Marisa Matamala, affiliata al MIR e rinchiusa a Villa Grimaldi:
«Il fatto di essere donna veniva sfruttato per, eh, distruggerti. Per esempio, il fatto che noi fossimo delle militanti, per loro era sinonimo, come ci dicevano, di essere delle puttane […]. È come se ti trovassi a dover affrontare tutto questo disprezzo verso le donne al punto di considerarle inferiori agli uomini, di ritenere che non abbiano diritto a prendere parte ad un mondo fatto di partecipazione cittadina, di partecipazione politica... non è il tuo spazio, perché ti avrebbe portato fuori dalla casa, [dove stanno] le "brave donne" (gesto delle virgolette) (Hiner, 2015: 879)».
In qualche modo, le vessazioni che si verificavano all’interno dei campos de prisioneros erano lo specchio di un quadro biopolitico più ampio. Risulta chiaro come ciò che succede negli spazi di eccezione cileni è un rapporto immediato tra il carnefice e la nuda vita dell’Homo Sacer, il quale non risulta essere semplicemente uccidibile, come suggeriva Agamben nella sua opera; piuttosto risulta essere violabile. Tale violabilità non può prescindere da un'analisi che ne metta in luce il significato politico, così come la rilevanza per un governo militare che agisce fuori e dentro i campi. Tra i centri di detenzione e lo scenario più ampio delle politiche cilene, vigeva, infatti, un rapporto di continuità che si esplicitava in forme estremamente violente e che prefigurava l’intento del governo militare di «rifondare» il Cile.
Ciò diventa particolarmente chiaro se analizziamo le scelte del governo cileno in campo economico alla luce delle analisi delle violenze nei campos de prisioneros cileni. Nel quadro della neoliberalizzazione del paese, infatti, una delle risultanti più rappresentative del processo di smantellamento dei progressi del vecchio governo democratico e delle limitazioni imposte alle donne all’interno della sfera pubblica fu quella del calo di occupazione delle donne nei settori lavorativi ad alta retribuzione: costrette dalla privatizzazione del mercato e dalle mancate tutele pubbliche per la classe lavoratrice, molte donne furono costrette ad occupare i settori meno retributivi dell’economia cilena, dedicandosi al lavoro di cura (Yáguez, 2008: 244). Come ha sottolineato nel 1987 la femminista e sociologa cilena Teresa Valdés, che aveva indagato l’intersezione tra classe e genere nel contesto dell’impoverimento della working class del paese, le donne rappresentavano uno degli elementi principali delle riforme politiche del governo militare. Descritte dalla propaganda di regime come «guardiane dell’ordine e forgiatrici della patria», le donne erano coloro le quali dovevano aiutare il regime a riprodurre «l’economia capitalista» del paese fornendo forza lavoro contribuendo, allo stesso tempo, a riprodurre «la struttura sociale» della nazione (Valdés, 1987: 244). In tal senso, risultava necessario per il regime militare disciplinare le donne: «addomesticarle e indottrinarle» voleva dire per il governo controllare anche la sfera privata, voleva dire reiterare la struttura patriarcale ed eteronormativa del regime nella sfera domestica e del lavoro riproduttivo all’interno delle famiglie cilene (Valdés, 1987: 244).
Tuttavia, non tutte le vittime di violenza sessuale erano affiliate ai partiti politici vicini alla sinistra UP di Allende. Secondo i dati dell’Informe Valech, delle 3.399 donne ascoltate dalla commissione di verità, 751 di esse erano militanti del Partito Comunista, 577 del Partito Socialista, 263 del MIR-FPMR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria-Fronte Patriottico Manuél Rodriguez), 442 di esse sono definite «simpatizzanti di sinistra» e le restanti 11.179 senza affiliazione politica.14 Sebbene molte di loro risultassero essere mogli o figlie di uomini affiliati ai partiti della sinistra cilena e al vecchio governo Allende, sottolinea Hillary Hiner (2015: 877), i dati della Commissione Valech risultano incompleti perché, anche nel contesto pre-dittatoriale, molte donne partecipavano alla vita politica pur non avendo un profilo politico pubblico. A ciò si aggiunga che le vittime accertate sono aumentate successivamente alle Commissioni Valech I e II, cosa che rimetterebbe in discussione sia il numero di donne coinvolte nelle violenze di regime sia il numero delle donne politicamente coinvolte nel governo democratico precedente al golpe.
Femminilizzare e depoliticizzare: lo stupro degli uomini nei centros de detención
Il rapporto conflittuale tra l’aguzzino e la vita nuda nei centros de detención manifesta l’intento machista del primo di rafforzare la propria mascolinità femminilizzando il secondo, un «atto di dominio maschile» (MacKinnon, 2012: 18), ma soprattutto il prosieguo di una cultura politica cilena omofoba di cui faceva parte sia la destra cilena, che aveva accusato e schernito il governo socialista Allende di aver reso il Cile una nazione omosessuale, sia la sinistra del paese (Palacios, 2011: 254). Come sottolineato da Victor Hugo Robles:
«da nessuna parte esisteva uno spazio dello spettro politico dove la virulenta omofobia della società cilena veniva messa in dubbio. Infatti, quella stessa omofobia segnò buona parte del linguaggio politico dell’epoca. Nella intensa lotta politica tra favorevoli e contrari al governo di Unità Popolare, i personaggi politici venivano spesso raffigurati come maricones o “froci”, e questo sia nel linguaggio, sia nei cartoni a sfondo politico. Era particolarmente comune negli ambienti della sinistra, che amavano ritrarre gli avversari come oligarchi effeminati dal discutibile carattere morale (Robles, 2011:254).»
La violenza sessuale a danno degli oppositori politici maschi rientra quindi in una cultura politica e sociale maschilista, eterosessuale e patriarcale. Gli stupri degli uomini nei centri di detenzione cileni ci consentono di comprendere in che modo le violenze sessuali rientrino in questo rapporto dicotomico tra femminilizzazione delle vittime e mascolinizzazione del carnefice. Scarsamente analizzati dagli storici, gli stupri a danno degli uomini hanno spesso finito con l’essere separati dalla più vasta narrazione relativa alle violenze sessuali nei campos de prisioneros cileni. Soprattutto a causa delle fonti utilizzate: come infatti sottolineato dalla storica Brandi Townsend le fonti relative agli studi dei professionisti della salute mentale che aiutarono psicologicamente gli esuli cileni fuggiti dal paese, in qualche modo, possono aver «contribuito a rendere invisibili le esperienze degli uomini» (Townsend, 2018: 162). Stimolati dall’ascesa del femminismo cileno di metà anni Ottanta, gli psicologi e le psicologhe «hanno cominciato a prestare maggiore attenzione alle esperienze delle donne militanti, incorporando nuove idee sul genere e la sessualità nelle loro teorie e pratiche» (Townsend, 2018: 162). In questo senso, è stato quindi posto un limite all’analisi di genere delle violenze, mancando di costruire un discorso univoco che tenga conto di tutte le forme del potere attraverso cui il regime ha segnato il corpo delle vittime.
Bisogna evidenziare come lì dove si palesano scenari di conflitto militari, esterni o interni alla nazione, la femminilizzazione dei corpi mediante violenze sessuali diventa centrale nel rafforzare la virilità del dominatore. In questo caso, soprattutto negli scenari di guerra, «la femminilizzazione e l’omosessualizzazione del corpo del nemico di sesso maschile – che si palesa nello stupro dei prigionieri o costringendoli a sodomizzarsi o ad urinarsi l’uno sull’altro […] – diventano un imperativo della conquista militare» (Corrêa, 2008: 198).
Questo risulta particolarmente evidente dalla testimonianza di Ángela Jeria, madre di Michelle Bachelet (presidentessa del Cile dal 2006 al 2010 e dal 2014 al 2018) che, dalla sua cella, assistette alla tortura sessuale di un gruppo di uomini raccolti dai militari cileni:
«Presero un gruppo di giovani uomini in cattive condizioni, molti di loro erano feriti. Li forzarono ad abbassarsi i pantaloni e ad allinearsi l’uno di fronte all’altro. A quelli dietro, venne ordinato di infilare un dito nell’ano alla persona di fronte e, al contempo, masturbarsi. Tutto questo tra le risa e lo scherno dei sorveglianti (Corral, 2015: 129).»
Sebbene non sia noto il numero reale degli uomini vittime di violenza sessuale nei centri di detenzione, secondo alcune donne rinchiuse a Villa Grimaldi, furono in molti ad essere stati violentati, oltre che torturati (Winn, 2006: 340). Tali atti vengono descritti dalle vittime come abusi commessi da ufficiali “omosessuali”, come atti “innaturali”, al fine di «riaffermare la propria mascolinità eterosessuale e il proprio potere, perso [durante la violenza sessuale]» (Townsend, 2018: 160). Questo è invece il caso di una vittima rimasta anonima, la cui testimonianza è stata raccolta nel 1976 dal Colectivo Latinoamericano de Trabajo Psicosocial di stanza a Bruxelles e che aveva contribuito a dare supporto psicologico alle vittime di violenza in fuga dal Cile:
«Cercavano i tuoi punti deboli. Ho sempre avuto un’avversione per ciò che è innaturale. Gli ultimi giorni di tortura, mi è stato addirittura somministrato del pentothal di sodio in ospedale, sono stato messo con una squadra, a quanto pare, di ufficiali omosessuali. Mi hanno messo contro il muro, con le mani legate, una maschera sul viso e una benda. Spingendomi al muro hanno cominciato a palpeggiarmi, toccandomi il sesso e baciandomi il corpo. Hanno anche provato a masturbarmi. Cosa che non hanno fatto. L’ultima volta che sono arrivato in caserma mi hanno fatto spogliare. Un ufficiale, un uomo apertamente gay, ha cominciato a perquisirmi. La mia reazione è stata quella di contrarre i muscoli e guardarlo con rabbia. Era l’unica reazione, e dirgli: “Se sono nudo, perché mi perquisite?” (Townsend, 2018: 160).»
In questo senso, la violenza sessuale non si prefigura solo come parte di un processo di svirilizzazione del corpo delle vittime, ma anche come affermazione della mascolinità del torturatore.
Tra vittime e carnefici: il caso delle collaborazioniste
Ciò che risulta difficile è inserire nel quadro dei rapporti di genere nei campos de prisioneros cileni finora descritti il ruolo di quelle donne vicine al regime di Pinochet che parteciparono alle torture o di coloro che, a seguito delle violenze subite, decisero di collaborare diventando carnefici. Come ha sottolineato Benedetta Calandra, la presenza di donne «passate “dall’altra parte della barricata”» contribuisce a complicare il quadro di una ricostruzione delle violenze sessuali nei campi e guarda a queste ultime come «espressione di potere esercitato dal genere maschile sul femminile» (Calandra, 2009: 71). Della presenza di queste donne nei centros de detención rimangono le testimonianze dei sopravvissuti e delle sopravvissute, le ricostruzioni giornalistiche e televisive cilene e le testimonianze delle collaborazioniste. Risulta difficile ancora oggi ricostruire il numero esatto delle donne al soldo della DINA o dei Carabineros nei campi di concentramento cileni. Tra i nomi che ricorrono nelle inchieste giornalistiche, nei documentari televisivi del Cile degli anni Novanta e nelle indagini delle commissioni di verità cilene, emergono quelli di Luz Arce e Marcia Marino, quest’ultima conosciuta come “La Flaca Alejandra”, entrambe attiviste del MIR diventate collaborazioniste della DINA dopo un periodo di detenzione e di violenze sessuali.
Su di esse i media cileni hanno costruito un immaginario collettivo teso ad accusarle di avere tradito i compagni di partito e di aver deciso di collaborare con il governo militare prendendo parte alle torture dei reclusi nei campi. Anche da parte delle femministe cilene si è posto il dilemma di dover analizzare il ruolo delle collaborazioniste, quest’ultime in uno spazio interstiziale nella separazione tra vittima e carnefice (Hiner, 2009: 54). Ciò che è stato poco indagato è in che modo la figura delle collaboratrici e delle torturatrici si ponga all’interno della politica di mascolizzazione/femminilizzazione presente nei centri di detenzione. In questo senso, risultano utili per la nostra analisi le testimonianze di Luz Arce rilasciate a Michael J. Lazzara tra il 2002 e il 2007.
Una delle figure più controverse delle donne reclutate dalla polizia segreta cilena, Luz Arce, venne arrestata e torturata dai Carabineros nel marzo del 1974 presso la struttura detentiva di Calle Londre 38 e poi presso Villa Grimaldi, dove gli agenti della DINA la violentarono ripetutamente. Reclutata dalla polizia segreta nel maggio del 1975, Arce rimase al servizio del governo per quattro anni e mezzo, facendo il nome degli ex compagni di partito, partecipando alle sessioni di tortura, assumendo persino false identità per compiere attività clandestine in Uruguay (Lazzara, 2011: 5). Nel 1993, durante il processo di democratizzazione del paese, la donna pubblicò El Infierno, un’autobiografia da cui emerse sin da subito il tentativo dell’autrice di «ricostruire» la propria identità, in cui pentimento, linguaggio religioso e traumi subiti fanno da contraltare alla narrazione circa le violenze a cui essa stessa prese parte (Blanes, 2006: 160). Secondo Arce (Lazzara, 2011: 111), dopo le violenze subite e dopo essere stata reclutata come collaboratrice, divenne per lei necessario accelerare un processo di mascolinizzazione della propria persona già iniziato in tenera età in un Cile in cui i ruoli di genere apparivano già definiti ma che diventa uno strumento di sopravvivenza all’interno delle gerarchie militari interne ai campi di detenzione (Lazzara, 2011: 111). Con alcuni ufficiali, racconta la donna a Michael J. Lazzara, il rischio di essere violentata pur facendo parte della DINA era all’ordine del giorno e, al fine di evitare i possibili stupri, la donna assunse degli atteggiamenti mascolini accettando anche la protezione di un ufficiale con il quale ebbe una relazione sentimentale (Lazzara, 2011:111-115).
Ciò che si può affermare, è che i processi di costruzione delle identità di genere devono essere analizzati a partire dal rapporto dialettico tra le componenti in gioco in una relazione di potere, come sottolineato dalle storiche Natalie Zemon Davis (1976) e Joan Scott (1986), soprattutto negli spazi di eccezione, entro cui le dinamiche di potere si manifestano in tutta la loro potenza distruttiva.
In studi precedenti relativi allo studio dei campi di concentramento tedeschi da un punto di vista di storia di genere, risulta evidente come i confini tra mascolinità e femminilità risultino essere mobili, anche in un contesto in cui le vessazioni, le subalternità e le relazioni di potere incidano sulla costruzione della mascolinità delle guardie del campo, anche femminili, e della femminilità delle vittime (Caplan, 2010: 82-107). Il caso delle collaborazioniste cilene, insomma, si pone all’interno di una «zona grigia» come ha recentemente sottolineato la studiosa Ruth Solarte Gonzáles (2020: 135-139), termine coniato da Primo Levi per spiegare l’impossibilità di separare nettamente carnefici e vittime di fronte alla presenza di collaborazionisti ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Tuttavia le fonti relative alla partecipazione delle donne all’interno della DINA risultano essere insufficienti e parziali, come nel caso dell’intervista di Arce, impedendoci di ricostruire dettagliatamente i processi di mascolinizzazione e femminilizzazione interni alle gerarchie militari coinvolte, così come risulta difficile poter confermare quanto le paure della collaborazionista circa la possibilità dello stupro da parte dei commilitoni e dai superiori possa aver contribuito al processo di mascolinizzazione.
CONCLUSIONI
Terminata la dittatura militare cilena, il processo di democratizzazione del paese passa attraverso le commissioni di verità e l’ammissione pubblica degli atti esecrabili di cui si macchiarono Pinochet e i corpi militari. Ciò che diventa estremamente significativo per comprendere quanto le relazioni di genere risultano centrali anche per comprendere il contesto delle violenze sessuali da parte del regime, è sicuramente l’attivismo di alcuni movimenti femministi cileni a partire dal XXI secolo i quali hanno anche contribuito ad aprire ulteriormente alle donne lo spazio pubblico della politica cilena in occasione delle ultime elezioni del maggio 202115. Contestando la scelta dei processi di verità di aver secretato le testimonianze e di non aver approfondito da un punto di vista penale il rapporto tra le violenze sessuali e il genere delle vittime, i movimenti femministi spingono ancora oggi per introdurre la categoria della “violenza sessuale politica”16 come mezzo legale attraverso cui poter riconsiderare un adeguato trattamento delle vittime del regime in vista di nuove riparazioni (Goecke, 2019: 58). In questo senso, nel processo di una elaborazione della memoria collettiva delle violenze di regime, è chiaro come un ruolo fondamentale lo abbia ancora oggi definire gli stupri come violenze che uniscono la questione di genere e quella dello spazio politico occupato dalle vittime.
Analizzare la natura dei campi di concentramento cileni attraverso una prospettiva agambeniana aiuta a comprendere quanto effettivamente la categoria della “violenza sessuale politica” risulti rilevante per ampliare le indagini circa la storia degli stupri nei centros de detención. Come si è infatti visto, attraverso l’applicazione delle teorie di Agamben risulta chiaro come gli stupri di regime in Cile rappresentino una delle manifestazioni più esplicite di un progetto politico ben più ampio di re-building nazionale che passa attraverso la sospensione dei diritti degli individui e il prefigurarsi di un rapporto diretto tra lo stato e la vita dell’Homo Sacer. Allo stesso tempo, in questo senso, le violenze sessuali verificatesi in quelle «localizzazioni senza ordinamento» dei campi di concentramento cileni diventano uno dei mezzi attraverso cui lo stato militare costruisce una identità di genere ben definita, dove mascolinizzazione e femminilizzazione dei corpi fanno da contraltare ad una politica ben più ampia responsabile di aver cancellato gran parte delle riforme del governo socialista di Allende. Lo stato d’eccezione cileno è uno degli specchi della ricostruzione del Cile neoliberale e conservatore, che ha coinvolto l’annichilimento dei dissidenti politici e il tentativo di relegare la donna nella sfera privata, costruendo un modello di genere duale basato sulla divisione eterosessuale delle sfere di competenza, pubblica e privata, maschile e femminile. Ciò che il caso cileno ha dimostrato è che in quegli spazi di eccezionalità localizzata, in quella costruzione moderna dei campi di concentramento – insomma – non si registra solo ed esclusivamente l’uccidibilità dell’Homo Sacer. Ciò che si registra in Cile, è che il corpo dell’Homo, ma anche della Femina Sacra (Lentin, 2006), è, in definitiva, violabile.
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Note
Bruno Walter Renato Toscano è Ph.D. student in storia presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa con un progetto di ricerca intitolato “Black feminism beyond borders. La lotta transnazionale ed intersezionale delle femministe afroamericane (1965-1985). Nel 2019 si è laureato con il massimo dei voti in Scienze Storiche e Orientali presso l’Università di Bologna con una tesi in Storia delle Dottrine Politiche intitolata “Revolution and reformism in Babylon. La rivoluzione americana del Black Panther Party (1966-1972). Nel 2018 è stato Visiting Research Fellow presso la UC Berkeley e la Stanford University.
1
Decreto Ley n°521, Ministerio del Interior, Crea la dirección de Inteligencia Nacional (DINA), 17 Jun. 1974, artículo 11, disponibile presso il sito: <https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=6158>; (consultato il 18 novembre 2020).
2
«A subire il peso della [repressione ad opera della] DINA nel 1974, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR) e, agli inizi del 1975, venne seguita dal Partito Socialista e dal Partito Comunista nel 1976 (PC)», in Barros, Robert, 2004, pp. 128-129, a cui si aggiunsero anche «il Movimento Popolare d’Azione Unitaria (MAPU) e la Sinistra Cristiana (IC)» (Corral, 2015: 262) Qui – e nelle altre occorrenze che seguono – le traduzioni sono a cura dell’autore dell’articolo.
3
Decreto Ley n° 5, Ministerio de Defensa Nacional, Declara que el estado de sitio decretado pro conmocion interna debe estenderse “estado o tiempo de guerra”, 12 Sep 1973, disponibile presso il sito: <https://www.bcn.cl/leychile/navegar?idNorma=5664>; (consultato il 27 aprile 2021); Nei fatti la Junta interpretò in maniera arbitraria l’articolo 418 del Codice di Giustizia Militare – il quale prevedeva che lo stato di guerra venisse applicato in contesti di ribellioni interne al paese – così da poter equiparare gli avversari politici a rivoltosi da reprimere (Barros, 2004: 119-120).
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Decreto Ley n° 640, Ministerio de Justicia, Sistematiza disposiciones relativas a Regimenes de Emergencia, 2 Sep 1974, disponibile presso il sito <https://www.bcn.cl/leychile/navegar?i=6248>; (consultato il 28 aprile 2021).
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Secondo le statistiche, le donne tra il 1970 e il 1973 rappresentano il 20% della forza lavoro non-domestico (Power, 1997: 251).
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Prima del 1972, l’unico spazio destinato alle donne era il CEMA (Centro de Madres), una organizzazione ricreativa cilena nata nel 1954 e che dopo il golpe del 1973 venne retto dalla moglie di Pinochet, Lucía Hiriart (Franceschet, 2005: 61).
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«Ci sono ancora pregiudizi tra gli uomini di Unità Popolare e c'è un "machismo" politico che nega alle donne i propri diritti, diritti uguali agli uomini, compagni. Non c'è rivoluzione senza la presenza delle donne. Non c'è battaglia rivoluzionaria senza la partecipazione delle donne», “Palabras desde los balcones de la Intendencia de Antofagasta”, 28 febrero 1972, disponibile presso il sito: <https://www.marxists.org/espanol/allende/1972/febrero28.htm>; (consultato il 2 maggio 2020).
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Mentre Allende aveva cercato di gestire lo scollamento dell’elettorato femminile sottolineando gli eguali diritti tra uomini e donne, Pinochet rese esplicito quanto il ruolo delle donne fosse essenzialmente subalterno poiché «se madri [della nazione] erano, non dovevano dimenticare di essere anche mogli» (Isla, 2017: 180).
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Cfs Memoria Viva, Centros de Detención: Chile 1973-1990 disponibille presso il sito <http://www.memoriaviva.com/Centros/centros%20detencion%20lista.htm>; (consultato il 4 maggio 2021).
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La CNI viene definito «organismo militare specializzato, di carattere tecnico e professionale, che ha l’obiettivo di riunire e analizzare tutte le informazioni a livello nazionale, provenienti da differenti campi d’azione» cfr. Decreto Ley n° 1878, Ministerio del Interior, Crea la Central Nacional de Informaciones, 12 Ago 1977
, disponibile presso il sito: <https://www.bcn.cl/leychile/navegar?idNorma=6766>; (consultato il 4 maggio 2021). Ma fin da subito si capì che il CNI rappresentasse l’erede diretto della DINA, continuando a torturare e a disseminare dolore e paure. Lo stesso Manuel Contreras, già a capo della DINA, fu posto a capo della “nuova” polizia segreta (Spooner 1999: 133).
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Rimando a Battistelli, Fabrizio, Guerrieri ingiusti. Inconscio maschile, organizzazione militare e società nelle violenze alle donne in guerra, in Marcello Flores (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Milano, FrancoAngeli, 2010, pp. 17-42; Corradi, Consuelo, Il corpo della donna come luogo della guerra, in “Difesa Sociale”, n. 2, anno LXXXVI, luglio 2007, pp. 5-17, p. 9.
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Se consideriamo la storia dell’Ottocento e del Novecento, il Cile di Pinochet non è il primo caso di costruzione della nazione associata ad una costruzione di genere ben definita e coincidente con la mascolinità e la virilità (Mosse, 1996).
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La situazione appare immutata anche con la sostituzione della precedente costituzione con quella del 1980, una «carta ottriata» - per usare le parole di Cristi Becker lettore di Schmitt (Cristi Becker, ivi: 248) - che non prevedeva il riconoscimento dal popolo e che nei fatti normalizza l’eccezionalità dello stato de sitio come emanazione di Pinochet. Infatti, lo stato d’eccezione poteva essere applicato dal Presidente della Repubblica anche senza nessun benessare da parte del Congreso Nacional, Cfr., Constitución Política de la República de Chile, Articulo 40, disponibile presso il sito <https://www.oas.org/dil/esp/constitucion_chile.pdf>; (consultato il 5 maggio 2021)
14
Comisión Nacional Sobre Prisión Política y Tortura, Informe de la Comisión Nacional sobre la Tortura y la Prisión Política (Valech I), Santiago, 2004, cap. VII, pp. 560-562.
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Nonostante la scarsa affluenza dell’elettorato, la vittoria è segnata dai gruppi indipendentisti alle elezioni sia per il rinnovo dei seggi dell’Assemblea costituente, sia per le elezioni amministrative. Per la prima volta nella storia del Cile la parità di genere viene introdotta all’interno del sistema elettorale per l’Assemblea costituente e i protagonisti di un processo che porterà al cambiamento della costituzione di Pinochet del 1980, come sottolineato recentemente dalla BBC, sono sicuramente le donne e il blocco delle sinistre <https://www.bbc.com/mundo/noticias-america-latina-57170732>; (consultato il 17 maggio 2021).
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Il termine nasce all’interno dei gruppi di discussione delle donne vittima delle violenze sessuale durante il regime e che, nei fatti, stabilisce una differenza sostanziale tra la violenza sessuale come mezzo di oppressione politica da altri tipi di abusi. Secondo Ximena Goecke, la violenza sessuale politica può essere definita come «un insieme di violenze simboliche e aggressioni fisiche sessualizzate ma non necessariamente sessuali e che vengono esercitate sia da civili che da agenti statali. Tali violenze condividono le seguenti caratteristiche: sia sottomettere le donne, la loro psiche e il loro corpo, secondo […] i ruoli attribuiti a quel dato corpo nella società, sia provocare il terrore di fronte alla disciplina sociale. Esso è un esercizio di controllo e di sottomissione che cerca di fermare, limitare, delimitare o escludere le donne dalla politica, costituendo una forma particolare (radicale, insidiosa e perversa) forma di negazione della cittadinanza» (Goecke, 2019: 63-64).
Author notes
bruno.toscano@phd.unipi.it
ISSN: 1137-9669
Vol.
Num. 33
Año. 2021
Spazi di eccezione nel Cile di Pinochet: un’analisi di genere delle violenze sessuali nei centros de detención (1973-1989)
Bruno Walter Renato Toscano
Università di Pisa, Pisa,Italia
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