1. Antonio Genovesi tra Napoli e Spagna
Nel 1754, mediante un fondo di 7.500 ducati finanziato dal matematico e imprenditore toscano Bartolomeo Intieri, fu istituita a Napoli in lingua italiana la cattedra di commercio e di meccanica, ovvero la prima cattedra universitaria di economia politica in Europa. In quel momento la capitale del Regno era attraversata da un vivace dibattito sulla valuta, le finanze e i commerci, che, sull’onda dell’influenza dell’Essai politique sur le commerce di Jean-François Melon (1734), aveva dato vita a originali iniziative editoriali, in particolare, Della moneta (1751) di Ferdinando Galiani, il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1754) di Antonio Genovesi, e Della perfetta conservazione del grano (1754), opera pubblicata sotto il nome di Intieri, ma riconducibile alla penna del Galiani.
L’incarico universitario fu ricoperto da Antonio Genovesi, professore di etica, ancor prima di metafisica, che, al pari di Galiani, si era giovato della protezione dell’Intieri, console della nazione fiorentina a Napoli, curatore dei Corsini, Rinuccini e Medici nel Regno e animatore, nella villa sorrentina di Massa Equana, di un circolo culturale ispirato ai principi di Cartesio, Galileo, Locke e Montesquieu. Tale circuito fu fondamentale ai fini dell’elaborazione del pensiero genovesiano, in quanto faceva dialogare gli intellettuali con i proprietari terrieri, esportatori di grano e mercanti: «uomini interessati per ragioni pratiche e non soltanto di studio al rapporto tra l’ordinamento del regno e le prospettive dello sviluppo economico e nello stesso tempo estranei alla pubblica amministrazione e da essa indipendenti. Lo stesso Intieri era assai più un amministratore di aziende agrarie che uno scienziato».
Genovesi raggiunse l’acme della sua fervida attività produttiva nelle Lezioni di commercio o sia di economia civile, pubblicate a Napoli in prima edizione, tra il 1765 e il 1767, e in seconda nel 1768-70, che perfezionarono l’impianto metodologico di analisi critica dell’ordinamento napoletano e di impegno riformatore per il progresso economico e civile. L’opera fu molto apprezzata a livello europeo, soprattutto con le edizioni di Milano (1768), Lipsia (1772-74 e 1776) e Madrid (1785-86), che ne permise la circolazione anche nell’America Latina. Il curatore dell’edizione spagnola, il giurista Victorián (Victoriano) de Villava, fu uno dei principali protagonisti della vita intellettuale di Saragozza e delle attività collegate alla Real Sociedad Económica Aragonesa de los Amigos del País, istituita nel 1776. Tra gli anni settanta e ottanta del Settecento, durante la sua attività di insegnamento di Istituzioni, Digesto e Codice, e del suo rettorato alla Sertoriana, il Villava impegnò le sue energie per un’azione di svecchiamento della tradizione scolastica di Huesca. Con lo stesso atteggiamento operò, successivamente, in Bolivia, dove fu fiscal della Real Audiencia de Charcas o de la Plata (Sucre) tra il 1791 e il 1802, anno della sua morte, e direttore dell’Accademia Carolina di Chuquisaca:
En cuanto al Derecho Civil y su enseñanza, este Plan [de Estudios de la oscense Universidad Sertoriana] se hacía eco de una opinión entonces muy en boga que afirmaba ser el derecho romano muy conveniente para los romanos, siendo «constante la actual distinción que en gran parte observamos entre aquel derecho y el que nos gobierna», por lo que proponía transmitir a los alumnos más bien «una idea y noticia de las [leyes] patrias y reales». Debía acompañarse el estudio del Derecho de un buen curso de Filosofía, Lógica y Ética, «y aunque en este general estudio no se tocan los demás ramos de la Moral, Economía y Política, creemos que la instrucción por lo menos de esta última sería muy útil a los que han de entrar al de la jurisprudencia».
L’opera del Genovesi permetteva l’approfondimento di temi in contesti culturali allargati e ricettivi all’innovazione. Villava, pertanto, da una parte enfatizzò il collegamento della cattedra universitaria ricoperta dal Genovesi con la stagione napoletana del sovrano spagnolo Carlo di Borbone, dall’altra evidenziò la freschezza ed utilità della proposta anche rispetto al contesto iberico:
Antonio Genovesi, Presbítero Napolitano, Catedrático ordinario de Filosofia Moral en la Universidad de Nápoles, y últimamente Catedrático extraordinario y Regio de la nueva Cátedra de Economía y Comercio, debida al zelo y proteccion de nuestro Soberano. […] esta doctrina no nos es infructuosa, pudiendo aplicarse á nuestra Nacion varios de aquellos defectos y sus causas.
Il Villava riconosceva nel pensiero genovesiano le matrici di un impianto teoretico basato su metodologie critiche sperimentate in Francia e in Inghilterra, tra la rivoluzione scientifica e l’Illuminismo, nell’ambito delle scienze naturali, della produttività sociale e del benessere collettivo:
la mayor parte de sus principios y máxîmas son de fundicion agena, y por lo comun demolde Ingles: su mucha leccion de Autores de esta Nacion, no solamente lo habia embebido, sino casado con las opiniones y sistemas político-económicos de tales Escritores; pero esta tan declarada parcialidad no quita que el Autor no ordene de un modo nuevo y todo suyo, los puntos mas principales de la ciencia, que trata en sus Lecciones, y no los presente baxo unas vistas sumamente apreciables é interesantes.
La linea argomentativa del Genovesi era alquanto complessa. Gli studiosi del pensiero economico e filosofico hanno ricostruito le molteplici influenze, che spaziano dall’utilitarismo al neoplatonismo di Shaftesbury, dalla filosofia morale di Gershom Carmichael e di Francis Hutcheson alla concezione tomista del bene comune e dell’etica delle virtù, dal neomercantilismo di Jerónimo de Uztáriz e Bernardo de Ulloa agli studi di Ugo Grozio, Samuel Pufendorf, John Locke, David Hume, Thomas Mun, Joshua Gee, John Cary, François Véron Duverger de Forbonnais e Plumard de Dangeul.
Gli storici del diritto hanno, inoltre, evidenziato la matrice neoculta e i riferimenti alla pubblicistica tedesco-olandese. Raffaele Ajello ha sintetizzato così la cifra dell’ambiente culturale in cui si formò Genovesi: «la natura, osservata empiricamente, rivelò le sue capacità di contraddirsi, di essere animata da un vitalismo creativo, casuale, imprevedibile, di vivere e di rigenerarsi, insomma di essere l’esatto contrario dell’ordine logico-matematico. I filosofi nuovi, i philosophes, si convinsero che bisognasse usare uno stesso ed unico metodo scientifico, che fosse problematico, sperimentale ed ipotetico, valido per tutte le ricerche aventi ad oggetto sia la natura sia lo spirito, le esistenze materiali come la vita psicologica e coscienziale».
Il pragmatismo della nuova cultura europea produsse in Genovesi «la sua evoluzione da filosofo a “mercatante” e poi a giurista», in controtendenza rispetto agli interpreti della burocrazia ministeriale e togata, impegnati a conservare lo status quo, vale a dire un ordine statico e ontologico organizzato intorno al primato della scientia iuris, come divinarum atque humanarum rerum notitia, e a difendere gli anacronistici privilegi dei ceti benestanti e parassitari: «le soluzioni parassitarie hanno costituito un rimedio, che ha spostato l’impegno dalla produttività generale, proiettata verso l’esterno, all’egoismo di ceto: ne è nata una sorta d’introversione sociale delle difficoltà, per cui ciascun gruppo tende a procurarsi il proprio benessere esclusivo, a danno degli altri, con generale impoverimento. Il ceto giuridico, che alla fine del medio evo si è sviluppato per fungere da spina dorsale dell’ordine razionale collettivo, si è inaridito e corrotto, diventando il più robusto custode del parassitismo, il maggior fomite dell’irrazionalità».
L’applicazione di un metodo realistico ed empirico, aperto al newtonismo e al lockismo, aveva procurato al Genovesi non pochi problemi negli ambienti clericali, di cui era espressione per aver preso gli ordini minori. Gli aspetti critici, che imponevano cautela, erano chiari al giurista spagnolo. Egli riteneva, infatti, che alcuni passaggi della sua opera fossero scarsamente dotati della necessaria prudenza, manifestando posizioni finanche pericolose. Relativamente alle allusioni antiromane di Niccolò Machiavelli e antispagnole di Paolo Mattia Doria, Villava aveva preferito intervenire sul testo come forma di autocensura. La premura era quella di mitigare i giudizi più severi in termini di mancato raggiungimento della pubblica felicità addebitabile alle politiche monarchiche ed ecclesiastiche e alla difesa degli istituti giuridici destinati alla conservazione del patrimonio familiare, in spregio al «benessere individuale e collettivo, che deriva da corretti rapporti tra individuo e società, dall’indipendenza delle due realtà, e non solo dal reciproco rispetto, ma da un forte nesso ed impegno collaborativo, senza cui è impossibile realizzare produttività e difesa»:
En la segunda clase [imperfecciones de la Obra] entran ciertas equivocaciones puramente políticas, y me atrevo á contar por tales su opinion y sistema enteramente destructivo de los mayorazgos y vinculos, y sus perjudiciales errores sobre la influencia y efectos del Gobierno Monárquico. […] que se ha hecho muy freqüente semejante declamacion en los Filósofos modernos, á quienes quando ménos les falta la prudencia, y les sobra la impaciencia y mal humor en este asunto. En la tercera pueden colocarse algunos desbarros del Autor en lo tocante al Gobierno de la Iglesia, á su Cabeza, á su autoridad, é ingerencia en la doctrina y disciplina, al establecimiento é influxo de los cuerpos Eclesiásticos, y algunas otras máxîmas, por las quales algunos zelosos lo notaron de Panteista, de cuya sospecha tuvo que purgarse en sus cartas. […] es innegable que las decisiones del Autor en algunos de estos puntos pasan la raya, y que el tono con que sentencia prueba en él una confesion, por lo menos parcial de la libertad filosófica, y una gran dosis de espíritu anti-Monárquico; y anti-Pontificio. Son muchos los lugares en que se echan de ver estas máxîmas, pero se reproducen, no sin algun estudio, en las notas, las quales excitan mas la curiosidad de los lectores, y se insinúan mas en los ánimos: hemos omitido de intento varios de estos pasages, teniendo por mas sano evitar, que dar preparado el veneno.
L’opera del Genovesi faceva emergere, sul piano dell’affermazione della pubblica felicità, un divario tra l’Europa centrale e settentrionale e quella meridionale, che poteva essere ridotto mediante la condivisione di conoscenze e competenze. L’impianto solido della riflessione genovesiana e l’attualità dei problemi sollevati, con potenzialità d’impatto sul territorio iberico, contribuirono alla sua circolazione, sotto una temperie favorevole, all’indomani dell’istituzione nel 1784 della prima cattedra di Economía Civil y Comercio a Saragozza, autorizzata da Carlo III, sotto la spinta della Real Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País, sull’esempio della cattedra napoletana istituita dal medesimo, quando era re di Napoli. La traduzione spagnola, basata sulla seconda edizione napoletana delle Lezioni di commercio, si impose come libro di riferimento per gli studi economici non solo a Saragozza, ma anche a Salamanca e a Palma di Maiorca, scalzando Las Lecciones de Economía Civil, óde el comercio, escritas para el uso de los caballeros del Real Seminario de Nobles, pubblicate a Madrid nel 1779 da Bernardo Joaquín Danvila y Villarrasa, professore di filosofia morale e di diritto pubblico, che, a loro volta, avevano rimpiazzato in un turbinio di sviluppo disciplinare l’opera A System of Moral Philosophy (1755) di Francis Hutcheson.
Il successo dell’opera genovesiana giunse al culmine di una riflessione, in via di definizione tra gli intellettuali spagnoli, che si può compendiare nel discorso di José Antonio Mon y Velarde, tenuto il 4 novembre 1783, come Direttore della Real Sociedad Economica Mallorquina de Amigos del País. Il terreno favorevole alla propagazione dello studio dell’economia politica in Spagna era attribuito da questi alla figura di Pedro Rodríguez de Campomanes, storico, giurista, ministro e membro del Supremo Consiglio di Castiglia, tra i principali ispiratori del piano di riforme di Carlo III, nonché autore di opere ispirate alle dottrine illuministiche, quali Tratado de la regalía de amortización (1764), Discurso sobre el fomento de la industria popular (1774), Discurso sobre la educación popular del los artesanos y su fomento (1775-77).
La ricerca scientifica del Genovesi, prima della diffusione su larga scala delle teorie di Adam Smith anche in Spagna, si era imposta come la più autorevole fonte di ispirazione, sia sul piano del primato da attribuire all’economia nella società civile e nella cultura di governo, rispetto alla burocrazia professionale al servizio della monarchia, sia sul ruolo della legge come strumento di garanzia dei diritti e di coesione sociale, sia, infine, sul concetto di bene pubblico, da prendere in considerazione, a differenza di Montesquieu, tanto nelle forme repubblicane quanto in quelle monarchiche.
Seguendo questo orientamento, il Direttore della Real Sociedad Economica Mallorquina nella sua accorata prolusione del 1783 aveva individuato nelle forme del disinteresse e noncuranza verso il bene pubblico le cause della «ruina de muchos imperios, y sera siempre el origen exterminador de las sociedaded civiles». La nuova frontiera di un regno prospero, libero, competitivo e creativo dipendeva, quindi, dallo spazio riservato alla scienza economica, in grado di proporsi come «alma de todo codigo legislativo, y el origen de las riquezas de los Soberanos, intimamente unidas con las de sus vassallos»:
La historia, dice Genovesi, enseña, que no hay leyes civiles entre los pueblos salvages, que hay pocas entre los pastoriles, algunas mas entre los cultivadores, é infinitas entre los comerciantes, á causa de la multiplication inmensa de las artes, y grandeza del comercio. […] y finalmente el cuidado de sus haciendas, y familias no les puede impedir el ocio necesario para cultivar este precioso ramo de Filosofia, antes bien, en sentir de Genovesi, es proprio de la nobleza por su grande influxo en la felicidad de las naciones. Pues si asi que cuerpo se hallará mas analogo al fomento de la prosperidad comun de un país, á que hemos procurado demostrar deben contribuir todos sin exception, que las Sociedades economicas, en donde no se piensa, ni se trata de otras materias, que de poblacion, education, agricultura, industria, artes, y comercio? El eclesiastico, el hombre publico, el padre de familias, el militar, el letrado, y el comerciante, que tienen en su corazon los intereses de su patria, el aumento de sus rentas, su prudente distribucion, la opulencia de sus casas, y el decoro de sus clases, hallaràn en la Sociedad reunidos los conocimientos teoricos, y practicos de muchos sujetos estudiosos, á que dificilmente podrá llegar la aplicacion privada de ningun particular .
2. La carestia del 1764: la fame e l’economia politica
L’insegnamento di commercio e di meccanica riscosse un successo immediato presso l’ateneo napoletano sin dalle prime lezioni, tanto da richiedere un’aula più grande per contenere i numerosi studenti. Parafrasando le parole del Genovesi, il ghiaccio era stato rotto ed ora apparivano percorribili sentieri disciplinari diversi da quelli tradizionali del sacerdozio, della medicina e del foro:
se noi volessimo aver la pazienza, e dirò ancora la carità, di apprendere l’Agricoltura, la Teoria del Commerzio, la Storia della natura, la Meccanica, ed altrettali utilissime Scienze, e di far penetrare nella gente più bassa i frutti di tali lumi, noi non saremmo niente, che mal convenisse al nostro carattere; e potremmo arrecare al nostro Regno quel giovamento, che difficilmente può avere da veruna altra parte di coloro, che l’abitano.
Le sue Lezioni di commercio o sia di economia civile furono pubblicate in una stagione particolare della storia del regno di Napoli. La carestia, iniziata nell’inverno 1763-64, aveva messo in evidenza le criticità di un Regno caratterizzato da uno sperequato rapporto di funzionalità tra città e campagna, da una politica annonaria asservita ai fini speculativi del mercato frumentario e della grande distribuzione rivolta all’estero, da opzioni assistenzialiste e parassitarie sui prezzi del pane in favore della plebe per ragioni di ordine pubblico, che finivano per alimentare un afflusso costante di disperati dalle province verso la capitale.
Nel 1765 Genovesi aveva contribuito, con una ricca introduzione, all’edizione napoletana dell’Essai sur la police générale des grains di Claude-Jacques Herbert, dedicata dall’editore Giovanni Gravier al ministro di Ferdinando Borbone, Bernardo Tanucci. Il tema della carestia e di come prevenirla coinvolgeva, secondo il Regio Cattedratico di Commercio, tanto i filosofi, quanto i governanti, sull’idea della libera circolazione dei cereali, come dimostravano i recenti editti in Francia del 1763-64 e «la cura amorevole d’un savio Ministro e amante dell’umanità», che «ci propone a leggere in nostra volgar lingua» l’opera di Herbert.
Le premurose espressioni del Genovesi nei confronti del Tanucci miravano a scuotere e orientare il ministro borbonico, di fronte all’emergenza, allo scopo di ricercare sinergie per nuove strategie, che si tradussero, tra il 1764 e il 1769, anno della sua morte, in un’attività di consulenza riguardo alle più importanti iniziative di riforma. Le prammatiche regie affrontarono la carestia e la successiva epidemia di tifo petecchiale da una prospettiva tradizionale, mediante le soluzioni di calmierare i prezzi e di applicare l’indulto per i reati, in un contesto sociale complesso, anche per le persistenti interpretazioni delle malattie sul piano della mentalità e religione popolare: «Quelli che eran guariti dal morbo sostenevano essere stati salvati pe’ voti fatti a’ Santi, e le famiglie di coloro che erano morti dicevano essere stati uccisi i loro parenti da’ Medici».
Genovesi, con l’attitudine dichiarata del filosofo civile, giammai del “Gazzettiero”, intese, invece, fondare le sue analisi su un approccio comparativo, evitando i luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi diffusi in Europa:
Se questo tanto Commercio delle nazioni del nostro globo dee giovare a qualche cosa (e può certo a molto) egli debb’essere principalmente nel farci conoscere il debole e il forte del pensare, e del governarsi di ciascun paese; affinché ogni popolo possa profittare degli altrui lumi. Questa fu l’arte, per cui i nostri maggiori, gli antichi Romani, non solo crebbero in potenza, ma divennero il modello del saper civile di quasi tutta la terra, e il sono ancora in Europa, per le loro Leggi.
Le conseguenze disastrose delle carestie erano per Genovesi strettamente collegate alle carenze strutturali del sistema rurale e all’esercizio dei diritti proibitivi. Nel rifiutare le posizioni bullioniste, secondo una linea convergente di pensiero che da Doria e Broggia era giunta fino al Galiani e al Nostro, la ricchezza nazionale non era identificata con l’accrescimento dei metalli preziosi, ma in base al rapporto tra risorse e popolazione, alla capacità di assorbimento di quest’ultima nel processo produttivo, e al ruolo dell’istruzione nella crescita della produttività del lavoro, rilevando la necessità di coniugare l’elemento quantitativo con quello qualitativo degli abitanti, rispetto ai dati reali dell’arretratezza e della dipendenza dalle importazioni francesi e inglesi. L’allievo Giuseppe Palmieri accentuò, più tardi, i riferimenti qualitativi del discorso demografico, all’interno di una riflessione più ampia che coinvolgeva una differente visione del rapporto tra monarchie e ceti, nonché tra funzione di governo e status : «Quindi si rileva, che, forse più dell’aumento del Popolo, gioverebbe alla società la division delle classi, e il ripartimento di occupazioni proporzionate ai suoi bisogni. Un milione di uomini di più forse vale meno del trasporto di altrettanto numero dalle classi sterili alle produttrici».
Secondo Genovesi, era possibile invertire la rotta della decadenza dell’agricoltura e della manifattura, facendo tesoro delle esperienze del passato e di quelle contemporanee:
Niuna massima fu mai meglio intesa da’ popoli culti. Di quì sono tante leggi favorenti l’Agricoltura; di quì i tanti antichi e moderni libri di Filosofi. Fisso in questa massima l’Imperador Federico II, gran nostro Legislatore, ed uguale a’ più famosi dell’antichità, comincia una sua Legge: Io ho a ridurre questi Regni, come tanti giardini della Terra, sicché sieno di spettacolo a i viaggiatori, d’invidia agli altri Sovrani, e di regola a i Regni stranieri. […] Sire, Carlo V vostro augusto predecessore, comincia una legge […]. Quindi ordina: sieno liberi i Vassalli di vendere, o di comprare, quando vogliono, dove vogliono, che, come, e quanto vogliono. Sire, dilargate ancora questa legge. Di quì dipende la vostra glòoria, e la vostra grandezza: di qui il costume, l’abbondanza, e la tranquillità de’ vostri popoli.
Nonostante le evidenze segnalate, alcune società europee non solo avevano dimenticato gli insegnamenti della scienza della natura e delle cose umane, ma, sotto la spinta della paura della carestia, avevano sollecitato, non di rado, rimedi inadeguati, come quelli relativi all’accumulo di cereali in granai pubblici, determinando molteplici criticità rispetto al numero degli stabilimenti, ai costi di esercizio e all’aumento dei prezzi, allo stato di conservazione del grano e alle possibili frodi dei custodi, alla diffidenza e ritrosia degli operatori commerciali nel dialogare con lo Stato, in una prospettiva di regime monopolistico asservito all’assolutismo regio:
Dopo gli esempi luminosi degl’Inglesi si può dir con sicurtà, che le carestie di Europa le han più prodotte le antiche leggi, che o la sterilità delle terre, o l’inclemenza delle stagioni. […] Chi fa la Storia d’Europa de’ secoli passati, vede assai leggiermente designati per appunto in queste immagini le leggi Economiche di tutti i popoli. Si sono studiati, mossi, cred’io, dal timore, più a correre armati contra la carestia, che a provvedere in pace e con occhio tranquillo, ch’ella non potesse invadere gli Stati. […] Quasi tutte le leggi da tre secoli addietro non mirano che ad opprimere l’Agricoltore, e a far incagliare il commercio de' grani: ad insospettirlo, ad intimorirlo, ad incatenarlo, siccome reo di pubbliche rovine.
Bisognava rassegnarsi ad aspettare la prossima carestia, come evento costante nella storia delle popolazioni europee, oppure invertire la rotta e spezzare le catene della tradizionale diffidenza nei confronti della libertà del commercio del grano e dei suoi effetti in materia di “abbondanza” dei popoli. Questa visione pare ispirarsi ad un precursore seicentesco dell’economia politica, Carlo Tapia, giurista ispano-napoletano autore del Trattato dell’abbondanza, in gran parte scritto nel 1594 ma ultimato nel 1638, anno della pubblicazione, dopo un lungo processo di elaborazione teoretica sui meccanismi legislativi ed economici per prevenire le carestie e i tumulti dovuti alla penuria di cibo. In quest’ultimo caso, riecheggiava ancora la memoria del linciaggio dell’eletto del popolo, Giovan Vincenzo Starace, scatenato dall’aumento del prezzo del pane nel 1585.
Il messaggio genovesiano di critica al parassitismo e di condanna delle tradizionali strategie politico-giuridiche era palese, anche se ciò comportava l’ostracismo da parte degli oppositori delle tesi mercantiliste e dei sostenitori della concezione sacrale della sovranità. A Genovesi non bastava il collegamento tra carestie, epidemie e castigo divino, da mitigare con preghiere e penitenze. Rispetto ai problemi legati alla mancanza di raccolto o al surplus produttivo, appariva più preoccupante l’incapacità da parte delle autorità di attivare un processo di liberalizzazione.
A dispetto di tutto, si continuava caparbiamente a perseverare sia nel ricorso alle politiche annonarie, ai dazi doganali e al prezzo politico del pane nella capitale, sia nell’impiego di misure repressive nell’ambito della tutela dell’ordine pubblico, della riduzione della popolazione urbana, del contenimento dei flussi migratori interni e dell’espulsione dei forestieri dalla città partenopea, senza tener conto della necessità di un assestamento degli equilibri politico-culturali e socio-economici tra centro e periferie:
Ecco l’apice della sapienza Civile. Negli affari di Commercio non far nulla da fronte, è lasciar venire tutto il bene, e abbondantemente. […] l’avidità del guadagno è uno de’ più forti motivi, che spinga gli uomini alla fatica, alle arti, e alle imprese più difficili. […] Che il Mercante trovi il suo conto al negoziar di grani: che non si chiuda a niuno la porta: non si forzi la libertà di nessuno, sia a comprare, sia a vendere; non si guardi, se venda dentro, o fuori dello Stato: se immetta, o esporti: che si lasci il prezzo montare, o bassare alle naturali cagioni, donde nasce. […] Il grano è una derrata necessaria a tutti i popoli. Si può ben far di meno d’un abito, ma non d’una pagnotta. Questo fa riguardare il commercio de’ grani, come il più sicuro, e, ben maneggiato, come il più lucroso. […] Che manca adunque, perché non molti vi s’impieghino? La libertà. Accordata che questa sia, avrete una moltitudine di Mercanti di grani, piccoli, mezzani, grandi, e per ogni luogo, dove si semini, e si ricolga. Questi vi daranno quell’infinità di Magazzini, che si richiede. Essi per lo stesso principio del guadagno, aiuteranno, e incoraggeranno i coltivatori. Più. I piccoli gentiluomini proprietari, che vivono nelle provincie, vi studieranno meglio l’Agricoltura; vi faranno rendere assai più le loro terre; vi faranno un po’ di negozio: vi si vedrà la quantità dell’azione producitrice di bene crescere e fiorire per tutte le parti.
Il più grande tesoro di ogni monarchia risiedeva nella prosperità dei sudditi, che facilitava la gestione virtuosa della finanza pubblica, a differenza del magro bottino garantito da un sistema di dazi imposto ad un popolo in povertà. Questa massima assumeva carattere assoluto ed universale, potendosi rinvenire tanto nella cultura confuciana, per il tramite delle Sinicae Historiae del gesuita Martino Martini, quanto nella cultura politica europea, con particolare attenzione alla vicenda storica del regno di Enrico IV di Francia e agli aforismi di George Savile, marchese di Halifax, che riflettevano la vita pubblica inglese dopo la restaurazione degli Stuart e l’avvio di un regime di monarchia costituzionale. Il riferimento ad Enrico IV suggeriva anche la critica alla politica francese, che, con la revoca dell’Editto di Nantes, aveva causato l’emigrazione di centinaia di migliaia di persone verso i paesi protestanti limitrofi, con rischi elevati in tema di tutela degli interessi commerciali e militari. Analoghe considerazioni potevano farsi in relazione all’espulsione dei moriscos da parte di Filippo III, che spopolarono le regioni di Valencia e di Aragona.
Per quanto riguardava il regno di Napoli, la corte napoletana imponeva i dazi doganali sulle derrate alimentari e sui prodotti della manifattura, oggetto di import-export, senza restrizioni o diritti proibitivi sulla quantità di merci, sugli sbocchi e sulla libertà del commercio. Ciò che mancava, invece, era l’attitudine pubblica verso le attività di valutazione e di monitoraggio dell’andamento dei mercati, allo scopo di modulare le politiche economiche, riducendo il carico fiscale per facilitare lo sviluppo, oppure aumentandolo rispetto ai beni esteri, allo scopo di tutelare la produzione interna: «È questa la pratica degli Inglesi, nazione, che più, ch’ogni altra si studia di aumentare il Commercio, siccome grandissimo fondamento della sua potenza, e ricchezza».
Il settore cerealicolo era sottoposto alle particolari attenzioni della corte, che applicava rigide soluzioni interventiste. Le proposte del Genovesi, invece, erano orientate alla libertà del commercio, avendo come modello l’Inghilterra, diventata nell’arco di pochi decenni «il granaio di quasi tutta l’Europa». L’unico possibile rimedio da adottare per seguire la rotta inglese, in sintesi, era quello di abolire i diritti proibitivi, vale a dire tutti i diritti derivanti da posizioni di monopolio:
è da tener per massima sicura, che la sola grandezza de’ dazi può render gli uomini arditi ad intercettare; perché dove il guadagno è maggiore, ivi l’uomo risica; di che è grande esempio il Tabacco. Del resto perché quei rimedi provisionali, de’ quali è detto, riescano acconci agl’interessi dello Stato, è mestieri, che sia noto in Corte così il bisogno de’ popoli, come la quantità delle derrate. Senza queste notizie ogni colpo potrebbe essere nocevole o al Sovrano,o al popolo.
Genovesi si affidò ad un mercantilismo «rinnovato» e a un nuovo spirito pubblico, che si fondavano sull’unificazione del mercato nazionale e su qualificate restrizioni da parte dello Stato all’importazione e all’esportazione, sull’autonomia e sovranità nazionale, «che abbia unità di leggi ed efficiente unità di potere», e sulla collocazione internazionale delle Sicilie, dove, tuttavia, «il progresso fu di mera consapevolezza teorica, mentre i problemi divennero ancor più difficili da superare».
3. «La prima sapienza di un legislatore è di conoscere queste cagioni [spopolatrici]: la seconda, di studiarsi di sterparle quanto è possibile»
Nell’introduzione all’edizione napoletana dell’Essai di Herbert, Genovesi caratterizzò l’argomento dell’andamento e della distribuzione della popolazione, come il «primo dato d’una savia Economìa». Per il regno di Napoli gli indicatori socio-economici e demografici si potevano individuare mediante lo strumento del catasto onciario, istituito da Carlo di Borbone nel 1740, che aveva lo scopo di censire ai fini tributari la popolazione e le proprietà nelle singole universitates civium. I catasti erano compilati in duplice copia ed erano custoditi, rispettivamente, presso gli archivi municipali e quelli della Regia Camera della Sommaria. La tiepida accoglienza riservata a una riforma che cercava di mettere ordine nella materia finanziaria spinse nel 1753 il sovrano ad inviare i commissari nelle periferie per accelerare le operazioni di redazione dei catasti. Nelle more del processo di rimozione delle diffidenze di natura fiscale e delle strategie locali per occultare elementi rilevanti ai fini contributivi, gli studiosi potevano attingere al sistema degli archivi parrocchiali e vescovili, preziosa fonte di informazione che Genovesi aveva potuto apprezzare dai tempi dell’ordinazione a sacerdote nel Natale del 1737. Incrociando i dati tratti da fonti eterogenee sulla demografia meridionale della prima metà del secolo, Genovesi indicava per il regno di Napoli la cifra complessiva di 2.800.000 abitanti. Dopo il ristagno demografico e l’involuzione economica, sociale e civile, a causa delle conseguenze della peste del 1656, della decadenza mediterranea e dell’inasprimento della struttura feudale del Regno, tra la numerazione del 1669 e l’avvento della dinastia borbonica si ebbe una tendenza all’incremento della popolazione, accreditata dalle fonti contemporanee intorno alla cifra di tre milioni di abitanti.
Dopo la crisi agricola e annonaria del 1764, si rendeva indispensabile per Genovesi una rigorosa disamina delle ragioni del disastro, che giungeva all’epilogo di un ciclo favorevole da decenni. All’incremento demografico non era corrisposto un aumento della produzione cerealicola, mancando interventi e stimoli pubblici idonei ad incidere sulla produttività, mediante l’impiego di tecniche agricole innovative e di strutture creditizie, sull’esempio dei più avanzati regni europei. A prevalere erano state le tradizionali opzioni, in termini di avvicendamento delle colture, espansione della superficie coltivabile e aumento della rendita fondiaria. Queste non erano in grado di far fronte tanto agli imprevedibili fattori metereologici o sanitari, quanto ai problemi strutturali delle rotte di comunicazione, con mercati regionali organizzati in sistemi autoreferenziali, privi di contromisure rispetto alle operazioni speculative.
Era ormai maturo il tempo per indagare sui “difetti economici” della capitale del Regno, vale a dire sull’organizzazione annonaria, sulla politica dei prezzi e sull’eccessivo indebitamento, che nel periodo 1764-82 ammontava a 2.632.645 ducati, di cui 843.028 contratti durante l’anno della carestia. La visione del Genovesi si fondava sull’interazione tra osservazione empirica, riflessione teorica ed esperienza storica, quest’ultima appresa alla scuola di Giambattista Vico. Al rilievo del dato antropologico e naturalistico, con la premessa del riferimento alla pervasività della superstizione popolare, Genovesi contrapponeva il coraggio di radicare nel tessuto napoletano la filosofia economica e di coglierne i benefici, al pari dell’Inghilterra, Olanda e Francia. La lettura critica e, finanche, la traduzione delle opere dedicate alla storia del commercio potevano essere di forte giovamento, allorquando queste non si limitassero ad elencare i primati nazionali, ma si addentrassero nei meandri delle ragioni della genesi di un’economia prospera e delle opzioni politico-giuridiche a supporto, come nel caso della Storia del Commercio della Gran Brettagna di John Cary, del Tesoro del commercio di Thomas Mun o delle opere di Jerónimo de Uztáriz e di Bernardo de Ulloa, i quali, sulla base degli insegnamenti colbertiani, si erano mostrati abili nell’analisi di «tutte le cagioni della decadenza del Commercio di Spagna, e insegnati tutti i veri mezzi da ristabilirlo».
L’influenza esercitata dalle teorie genovesiane in materia si può rintracciare, per esempio, nella principale opera del duca di Cantalupo. Nel combinare il neomercantilismo con alcuni aspetti della fisiocrazia, egli si cimentò in una matura e meditata riflessione sull’inefficacia del regime vincolistico e protezionistico del regno di Napoli e sulla prosperità di quei paesi, come Genova o l’Olanda, che, sebbene carenti di materie prime, avevano tratto giovamento dalla liberalizzazione del commercio e dallo sviluppo delle manifatture, garantendo una presenza costante di prodotti con prezzi equi:
Ora se questa tale libertà per unanime confessione di tutti gli Economisti più intelligenti, e pratici è stimata necessaria per la prosperità di qualunque commercio, perché poi dovrà esser cattiva per l’Annona, e per la Grascia d’una vasta Popolazione, ch’è il commercio più per lei interessante, e da cui unicamente dipende lo stato felice, o infelice della sua propria sussistenza?
La carestia e l’epidemia del 1764 avevano acceso in Genovesi l’attenzione sul rapporto tra produzione e popolazione. Secondo i dati ricostruiti dal Venturi nel 1973, i due eventi causarono la morte di oltre duecentomila persone, con un’incidenza sulla capitale pari al 13%. L’emergenza, annonaria e sanitaria, costituì soltanto una battuta d’arresto per l’andamento demografico del Regno, che riprese il suo cammino naturale di crescita negli anni a venire senza, tuttavia, raggiungere i primati del Cinque e Seicento, prima della grande peste del 1656.
Sul terreno di questi elementi salienti, Genovesi pungolava le autorità. Ogni sovrano, di qualsivoglia regno, aveva il dovere di conoscere in profondità il sistema di calcolo delle rendite e delle spese annuali, delle disponibilità alimentari della popolazione e della superficie territoriale, agraria e forestale del proprio Regno. Alla rapsodicità e disomogeneità degli approcci impiegati si doveva preferire la valutazione degli interventi sulla base di strategie fondate su dati certi e metodologie appropriate. Le fonti disponibili avevano consentito al Genovesi di calcolare il fabbisogno cerealicolo annuale del Regno in sedici milioni di tomoli, rispetto a una superficie agricola impiegata di otto milioni di moggi sui dodici disponibili. I restanti erano impiegati in uliveti e vigneti. La produzione agricola, indipendentemente dall’andamento climatologico delle stagioni, non era in grado di raggiungere quote elevate, a causa dell’arretratezza del sistema rurale e della scarsezza di manodopera nelle campagne: «E questa sarebbe degna materia della gloria de’ nostri Sovrani. Raddoppiare il numero degli abitanti è acquistar senza la menoma ingiustizia un nuovo Regno, e divenir due volte più ricco e potente».
Sulla base concettuale di Plumard de Dangeul e di Jerónimo de Uztáriz, Genovesi mise in risalto il ruolo dell’agricoltura, partendo da valutazioni contingenti e da considerazioni normativo-istituzionali, per innestarsi, poi, in dinamiche di lungo periodo finalizzate alla pubblica felicità, in un contesto di auspicata collaborazione tra gli intellettuali e le forze economicamente più influenti: «La prima giustizia è il far che gli uomini mangino i frutti della Terra, perché non diventino Cannibali: la seconda che mangiano i frutti de’ loro beni e del loro sudori. Il vivere per gli sudori degli altri non è giustizia, ma beneficenza».
Genovesi proponeva una redistribuzione della popolazione, invertendo il corso dei flussi migratori. Venticinquemila persone, alle prese con indigenza e vagabondaggio, potevano essere dirottate dalla capitale verso le periferie per l’impiego nell’agricoltura, in direzione degli Abruzzi, dove numerose erano le terre incolte, oppure delle Puglie e delle Calabrie, dove mancava la manodopera. Una soluzione simile poteva essere adoperata anche per l’inoperosa gente di campagna, che alimentava il banditismo locale. L’agricoltura, in ultima analisi, era presentata come Artemadre, vale a dire la sorgente di tutte le arti: «il Commercio, e i Negozianti di quelle ricavano la più ricca mercanzia. Tutti poi e Artisti, e Nobili, e Grandi, Magistrati, Preti, Frati, Soldati, ed ogni altro, che ci viva, mangiano, vestono, ardono, abitano, sguazzano, lussureggiano, per gli sudori di quelle».
Le leggi e i tribunali erano impiegati nella disciplina e repressione del fenomeno criminale, in funzione dell’emergenza e della tutela dell’ordine pubblico. Il binomio giustizia-repressione trascurava, però, l’idea di una cultura istituzionale attenta alle cause strutturali di una società arretrata, alle prese non soltanto con la violenza di una diffusa criminalità, ma anche con la più ingegnosa sofisticheria al servizio della corruzione e malversazione: «Coloro che sono i Sacerdoti della giustizia, si studieranno i modi di deluder le leggi, dove non ci sia altrimenti né per loro, né per altri da vivere».
Sull’esempio evocativo di Numa Pompilio, i «Tribunali per la pubblica opulenza e grandezza» avrebbero potuto risanare il Regno, sulla base di nuove priorità socio-giuridiche e istituzionali, attraverso l’istruzione pubblica e l’adozione di un meccanismo razionale-utilitaristico di tutele civili e penali basato sull’agricoltura e sulla libertà commerciale, sull’uguaglianza di diritto, su una fiscalità equa, sul contrasto alle posizioni di rendita parassitaria e sull’efficienza delle rotte terrestri e marittime:
Questi medesimi Magistrati pel nuovo genere di occupazione sarebbero divenuti Economici e Meccanici: avrebbero studiato l'Agricoltura, come l'unico loro Codice: avrebbero inventato delle nuove macchine agrarie, o migliorate le vecchie: si farebbe con ciò veduta una infinità di belle e utili produzioni; e tutto il paese ne sarebbe divenuto più ridente e lieto, più ricco, più popolato, più potente. […] Noi ci dottoriamo in su i Testi Civili, e Canonici: in sul Maestro delle Sentenze. Non dislodo questi dottorati. Un altro privilegio per dottorarci in su Melon, o in qualche altro testo di Economia sarebb’egli soverchio? È troppo manifesto, che in tutta Europa, quei, che chiamansi Dottori, sono i soli che governino gli Stati. Bene, o male, che vi si faccia, non ha altrove la sua sorgente, che in questo ceto. Perché sapendo tante belle e sublimi cose ignorerebbero poi i principi della soda Economia? La gloria della virtù e più posta nell’azione utile al pubblico, che nella contemplazione, assai volte pigra e sterile.
Il nucleo principale di tale visione era già in nuce nel saggio introduttivo del 1764 all’edizione napoletana dell’opera dell’agronomo toscano Cosimo Trinci, L’Agricoltore Sperimentato (1726), dedicata al principe di Migliano, conte di Potenza e marchese di Trevico, Francesco Loffredo, con il quale il Nostro intratteneva una fitta relazione epistolare sugli esperimenti in agricoltura. Genovesi utilizzò come fonti principali gli studi di Montesquieu, di cui curò l’edizione napoletana dell’Esprit des Loix , e quelli di David Hume e di Robert Wallace. Questi ultimi si erano cimentati negli anni cinquanta del Settecento con il tema della popolosità delle nazioni antiche, allo scopo di indagare sul rapporto tra benessere, movimento delle popolazioni ed espansione economica. Le teorie del filosofo edimburghese, in particolare, si rivelarono decisive riguardo alla definizione della felicità di una società in rapporto alla sua connotazione demografica, all’interno di un programma di politica economica costruito sulla dimensione finanziaria derivata dal lavoro produttivo, in contrapposizione al “mito dell’oro” e alla “magia del credito”.
Genovesi si era interrogato sullo stato delle province napoletane, provando a ragionare sui temi dei livelli di sostenibilità, in caso di politiche di incremento demografico, e di efficienza della produttività agricola, in aree particolarmente favorite dalla fertilità e dal clima. Egli era convinto, al pari dei menzionati intellettuali, del progressivo declino della popolazione dell’Italia meridionale dai tempi antichi fino al XVIII secolo. La decadenza, che aveva reso difficili le condizioni di vita degli abitanti, non era addebitabile, secondo la sua personale convinzione, a cause naturali, come le condizioni dell’aria, del suolo e del clima, ma a cause di ordine morale. Con ciò non si intendeva affatto dar sostegno ai pregiudizi francesi su un Regno che si mostrava come un paradiso «abitato da diavoli». I napoletani erano noti e apprezzati, anche dai britannici, per la loro generosità, semmai fin troppa. Nella riflessione genovesiana era ben presente la disamina dell’influenza delle cause naturali-ambientali sulla costituzione fisica e sull’indole dei popoli.
Tra le principali «cagioni morali» dello spopolamento e delle frequenti carestie, in contraddizione con le caratteristiche favorevoli dei luoghi del Sud d’Italia, Genovesi indicava soprattutto l’arretratezza dell’agricoltura. Nel contesto decisionale della capitale, l’abate salernitano rilevava la scarsa percezione dei problemi delle campagne, che impediva qualunque spazio di dibattito pubblico rispetto alle condizioni del paesaggio agrario:
Non è, che io nella Capitale non oda spesso da certuni, che nuotano nel grasso, senza saper donde si stilli, parlar delle cose agrarie con quello strapazzo, e con tanta salvatichezza, come se fossero fuori di questo mondo: ma so altresì, che su questo punto, in niuna parte vi dev’essere più selvaggi, quanto nelle grandi Capitali. Non usciti mai delle mura, o usciti per un pranzo, o festino notturno, quale idee potrebbero avere delle campagne, e di quel, che riempie le loro mense, gli veste, gli fa abitare con morbidezza?.
Genovesi, esasperando il discorso, contrapponeva l’ignoranza dei cittadini, che credevano all’esistenza degli alberi del grano, del riso o delle fragole, a quella dei contadini, che si affidavano, non alla conoscenza delle politiche e delle meccaniche agrarie, ma a «un poco di cattiva pratica, e una non migliore tradizione degli Avi». Mancava, inoltre, qualsiasi spirito di iniziativa, sia per la paura degli eventuali insuccessi, sia per la carenza di fondi da investire, sia, più semplicemente, per l’assenza di interesse. Il cambio di passo doveva consistere nell’affidarsi agli “scienziati” e ai “galantuomini”, i soli in grado di possedere la cultura agraria e l’intelligenza imprenditoriale necessarie, senza indugiare nell’ozio di «certi popoli troppo filosofi e specolativi», nell’ambizione sterile e nell’avarizia:
La Toscana, per confessione di tutta Italia, è quella parte tra noi, dove l’Agricoltura è meglio intesa, e più diligentemente praticata: ma i grandi Autori di quest’arte, i Crescenzi, i Vettori, i Soderini, gli Alamanni, i Davanzati, ed altri, sono stati o Filosofi, o Gentiluomini, o l’uno e l’altro insieme. Si conviene, che di tutta Europa, gl’Inglesi (maraviglia a pensarci per chi sa le loro antichità!) coltivino meglio: ma si sa, che in niuna parte di Europa i Filosofi, e i Signori stieno più tempo in Campagna, e s’interessino più alla coltivazione.
L’operosità dei contadini era misurata in funzione della proprietà della terra o del lavoro autonomo, che spingeva al miglioramento delle coltivazioni nel lungo periodo, a differenza dei fittavoli e dei mezzadri che gestivano i poderi altrui. Genovesi aveva costruito una piramide gerarchica che, dall’alto delle condizioni ottimali dei contadini inglesi, scendeva gradualmente verso quelle meno favorevoli fino alla base, occupate, rispettivamente, dai francesi, dai napoletani e, in ultimo, dai polacchi.
Secondo Genovesi, i due terzi del territorio rurale del regno di Napoli appartenevano agli ecclesiastici, mentre il rimanente terzo era suddiviso in piccola parte tra i contadini e in maggior misura tra borghesi, signori feudali e forestieri. In sintesi, soltanto la nona parte delle terre coltivabili era gestita direttamente. Le restanti parti, invece, contribuivano poco, rispetto alle potenzialità, in materia di adeguato livello di approvvigionamento alimentare, di evoluzione delle strutture agricole, di aumento della redditività e di sostegno demografico delle campagne. Tali indicatori, che la storiografia ha sminuito soltanto rispetto all’esagerazione delle reali dimensioni, risultavano decisivi per sottolineare il cattivo stato di salute delle province e suggerire un approccio più diretto alla trasformazione del paesaggio agrario del Regno. La ricerca di una soluzione pubblica ai problemi evidenziati non contemplava né il ricorso a una legislazione agraria, con la distribuzione di terre a contadini indigenti sprovvisti di competenze e mezzi necessari, né tanto meno l’impiego del lavoro servile in agricoltura. Come il modello di economia rurale ateniese era da preferire a quello spartano, allo stesso modo, la civiltà latina agricola espressa da Catone o da Varrone doveva preferirsi a un paesaggio agrario basato sull’utilizzazione massiva degli schiavi:
Che fare? Dirà taluno. Una legge Agraria? Dio mi liberi: io non sono sì stolto, né sì temerario da pensare a rimedi o impossibili, o pericolosi alla pubblica pace. So, che dove le terre sono con minore disugualità divise, si può meglio coltivare, e avere più abbondanza: sentire meno spesso le carestie: esservi più gran quantità di popolo: i Grandi più ricchi, più potente il Sovrano. Ma noi siamo sì trascorsi avanti, anche in mezzo alle buone, e savie leggi, che non ci resta apertura nessuna alle leggi agrarie, e che non fosse per essere cagione di maggior male.
L’agricoltura era considerata una struttura portante dell’economia moderna, mentre poco spazio era riservato agli usici civici, pascolo e “legnatico” su tutti, che implicavano riflessioni sull’impatto della deforestazione sulle condizioni delle popolazioni nelle aree interne. Rispetto alla necessità del rimboschimento, tema molto dibattuto in Inghilterra, la dinastia borbonica era intervenuta nel 1759, con il divieto di tagliare gli alberi di alto fusto, ritenuti necessari al fabbisogno degli uomini e degli animali e fondamentali per i cantieri navali. La normativa fu molto criticata dagli intellettuali meridionali, che dimostrarono una maggiore sintonia con gli illuministi francesi, circa la dimensione utilitaristica del bosco, riguardo all’impiego della legna, e la necessità di intervenire sugli squilibri tra capitale e province attraverso il ricorso all’agricoltura intensiva dei terreni demaniali e feudali.
Secondo il pensiero di Genovesi, l’unico rimedio praticabile in un mondo agricolo arretrato era quello «del livellare, o censuare in perpetuo i fondi, che sono in mano di coloro, i quali o non possono, o non devono coltivare», in quanto il Regno era dominato dalla grande proprietà feudale ed ecclesiastica, dalla forte incidenza delle rendite in terraggi, decime o censi di varia natura, dalla riduzione della superficie destinata a coltura, dall’esistenza di estese aree demaniali soggette agli usi collettivi, dai gravami sull’attività produttiva e dai vincoli al commercio.
Nel riprendere un tema affrontato dal fisiocratico Mirabeau nell’Ami des hommes ou traité de la population (1756), sull’assenteismo rurale e sull’accentramento urbano, Genovesi si occupò in primis dell’aristocrazia rurale laica, che si era riversata nella capitale del Regno. Non potendo occuparsi direttamente della gestione e della valorizzazione delle risorse agrarie, questa si trovava di fronte a due alternative, vendere oppure dare a censo i propri fondi rustici. In una visione circolare, che combinava il perseguimento del bene individuale con quello collettivo, il ricorso al contratto censuale a lungo tempo o in perpetuo avrebbe garantito la produttività delle terre, risolto il problema dello spopolamento nelle campagne e salvaguardato le rendite dei proprietari terrieri, senza il rischio di doversi affidare a fattori, spesso inaffidabili e privi di scrupoli.
Molto più ardua era, invece, l’impresa di rendere accettabile la diffusione dei principi della “vera Economia” negli ambienti ecclesiastici, che giustificavano i loro interessi diretti nell’agricoltura, tramite gli insegnamenti di san Paolo e dei fondatori degli ordini monastici, e che, nel resistere alle disposizioni del concordato del 1741, non rispettavano il principio della presenza numerica in proporzione alla popolazione e alle risorse economiche.
La materia non si poteva affrontare con gli argomenti propri di una società tardo-imperiale oppure altomedievale. Il XVIII secolo imponeva soluzioni diverse a coloro che non potevano o non dovevano coltivare per sé stessi. I maggiori detentori di patrimoni agrari nel Regno dovevano uscire dal torpore della staticità e contribuire al progresso, mediante il ricorso al contratto libellario, strumento utilizzato nel passato per aggirare la regola dell’inalienabilità dei beni, facendo lavorare le terre che non erano in grado di coltivare da soli, senza perdere la proprietà. Alle cautele medievali per tutelare il patrimonio ecclesiastico si opponevano le ragioni della produttività e del ripopolamento delle campagne, che, combinando le letture di Varrone, Columella e Plinio, con quelle degli scrittori contemporanei toscani, francesi e inglesi, facevano reclamare a gran voce l’esigenza di trasformare i rapporti contrattuali tra contadini e proprietari, allo scopo di rendere disponibile la terra arabile, in piccoli appezzamenti, ampliando i margini di indipendenza dei coltivatori:
Ma se a me appartenesse a pregare umilmente colui, che n’è il capo, e che ha dritto di muovere tutto il corpo in benefizio costante della Chiesa, e dello Stato, direi Signore, obbligategli con un Decreto. Chi governa vuol perpetuamente supporre, che i governati hanno molto sempre dell’età fanciullesca. Si obliga perciò a fare del bene colla sferza della legge, dove non giovano i consigli. Questo nondimeno non dovrebbe disobbligare quei Ecclesiastici, che non hanno altre cure, di studiare anch’essi un poco l’Agricoltura, affine e di essere utili a i Coltivatori, a cui potrebbero dare de’ maravigliosi lumi; e di assicurare anche meglio le loro rendite. Se i grandi e santi fondatori degli ordini religiosi n’han comandato l’esercizio, parrà troppo impararne almeno le teorie?.
La povertà e il lavoro servile nell’agricoltura erano caratteristiche dell’ambiente rurale, dell’insediamento e delle condizioni di vita contadine nell’Europa medievale, al servizio di un’economia fondata sulla combinazione del sistema curtense con il sistema politico feudale:
Si è creduto da certi nostri antichi (e non so se sì fatta persuasione s’è ancora tutta dileguata) che si dovesse tenere schiava, e pezzente la gente sottomessaci, e opprimerla per tutti i versi, per obbligarla alla fatica. Quanto più si ha bisogno, dicono, più si lavora.
Genovesi evidenziava la contraddittorietà di tale principio utilitaristico avverso al diritto naturale, al Vangelo e all’esperienza: l’«oppressione di spirito toglie il cervello, e le forze; e quel ch’è peggio, rende ostinata la volontà nel non voler fare del bene». La trasformazione agraria non poteva essere risolta da una prospettiva feudale, perché poggiava sullo sfruttamento dei coltivatori, coloni e massari rispetto ai quali si poteva soltanto raccomandare un trattamento ragionevole, e negava ogni possibilità di sviluppare investimenti nella piccola e media proprietà. L’abate salernitano apprezzava la cultura agraria toscana e, soprattutto, quella inglese, in merito all’impegno diretto dei baroni nel processo produttivo, rispetto agli omologhi napoletani, semplici percettori di rendita o speculatori nel commercio granario. In una prospettiva di politica economica, Genovesi manifestò la necessità di una più equa distribuzione fondiaria, mediante la contrarietà verso tutte quelle forme di dipendenza servile, che finivano per essere un ostacolo alla visione del progresso, della modernizzazione e del rinnovamento agrario. Nel perseguire questa linea, egli dimostrava di apprezzare finanche il Cod Noir di Luigi XIV, perché conteneva qualche elemento di umanità verso la condizione degli schiavi nelle colonie francesi, mediante la conciliazione con la servitù domestica, e si differenziava dall’antico modello romano: «Tutti i paesi, dove i coltivatori sono trattati alla maniera degli schiavi Romani, sono mezzo deserti, e non rendono, che poco o nulla». La posizione genovesiana, in ultima analisi, era quella di inglobare il mondo agricolo all’interno della vita economica e culturale, vale a dire «entro l’ideologia delle culte nazioni», badando a svecchiare i metodi di gestione dell’agricoltura, in funzione di una nuova borghesia imprenditoriale e di contadini indipendenti e istruiti da professori itineranti, secondo l’idioma volgare. Tutto ciò avrebbe comportato «una cultura dell’integrazione e dello scambio fra città e campagna».
La prosperità di qualsivoglia regno dipendeva, quindi, non dalla capacità del monarca di essere «temuto da una turba di mendichi avviliti a forza di battiture, e renduti simili alle bestie», ma dalla grandezza di essere “padre” in grado di coltivare il cuore dei propri sudditi, come insegnava il marchese di Halifax, mediante «egualità della giustizia» e forza dell’esempio, sull’onda della massima ciceroniana, così aggiornata: «ogni uomo è per sua natura animale pacifico e attivo: ma egli diventa o fiero, o poltrone su l’esempio di coloro, che il menano».
Tale approccio, esplicitato pure nella Diceosina, negava ogni forma di dispotismo ed elogiava i virtuosi modelli monarchici del passato:
Tutti gli Stati Dispotici sono spopolati: e nelle Corti di Costantinopoli, di Spagna, di ec. si conteranno più Sovrani ammazzati, che morti pacificamente. La schiavitù dunque non è dell'interesse del genere umano. L’uomo è un tal animale, dal quale si può più sperare con de’ trattamenti piacevoli ed umani che col rigore e la forza. […] Pietro Re di Portogallo, il quale fu detto il Giustiziario, e la cui perpetua sentenza fu, non meritare l’augusto titolo di Re chi non pensa ogni giorno a far qualcosa in pro de’ sudditi, questo gran Sovrano, dico, per riformare il popolo, cominciò a riformar se e la Corte, essendo persuaso, non poter essere né religiosi né giusti que’ popoli, le Corti de’ quali son guaste.
La fede pubblica assumeva un ruolo centrale per determinare lo sviluppo civile, economico e demografico di uno Stato. Nel regno di Napoli era dominante il tratto della fiducia privata, attivata attraverso legami particolaristici. Raffaele Ajello, nell’indagare sui rapporti tra il riformismo borbonico e la cultura settecentesca meridionale, ha rilevato la presenza di «difficoltà interne ed esterne quasi invincibili», in un quadro «caotico e di forti tensioni sociali». Ai propositi programmatici si opponevano ostacoli insormontabili alla loro realizzazione, in quanto a sostegno e funzionamento di lunga durata, non essendo sufficientemente attrezzati per incidere sulla mentalità collettiva. A mancare era il fattore basilare della compattezza sociale, vale a dire l’intima coesione tra gli interessi della monarchia e quelli dei propri sudditi. Merito del Genovesi fu quello di aver intercettato gli elementi del progresso ideale e materiale delle monarchie europee più progredite e di aver dato linfa alla seconda generazione dei riformatori illuministi napoletani, su tutti Giuseppe Maria Galanti, Francesco Mario Pagano e Gaetano Filangieri, nel passaggio dal governo illuminato di Tanucci all’assolutismo di Maria Carolina.
Nel contrapporre una struttura coesiva istituzionale e sociale «al vittimismo passivo che da secoli portava ad accettare come regola divina lo status quo inerte», Genovesi non fu risparmiato dall’urto violento della dialettica politica meridionale:
a voler accreditare una Nazione, e farle acquistare il grado di commercio, del qual è capace, bisogna, che vi si pianti, e vi si coltivi il buon costume, la reciproca confidenza, la sicurtà. Adunque la severa educazione, le regole, e le leggi, che sottomettono le manifatture, e i contratti alla legge generale della pubblica fede, le pene severe e pronte contra coloro, che violano la fede de’ contratti, sono assolutamente necessarie al commercio d’un popolo. […] Un Magistrato non è già un Legislatore, ma solo un esecutore delle leggi. In qualunque sistema di Governo, Regno, e Repubblica i Magistrati sono i custodi de’ diritti del popolo, i vindici de’ delitti, e delle pene, gli esecutori delle leggi, ed i Censori de’ costumi privati, e pubblici.
Per avvicinare il regno di Napoli all’Europa occorreva, innanzitutto, conoscere la sua realtà fisica ed umana. Ciò equivaleva a sostenere il concetto che per risolvere i problemi bisognava prima saperli diagnosticare, mantenendo un approccio orientato al campo della sperimentazione pratica. Le teorie demografiche erano ritenute parti integranti dello sviluppo del pensiero politico e dell’analisi economica. La solidità del «corpo politico» si misurava sul rapporto tra l’estensione del territorio e la sua popolazione. Il deficit demografico, insieme alla non funzionale distribuzione sul territorio della popolazione, si ripercuoteva negativamente sulle dinamiche economiche, finanziarie e militari dello Stato, finendo per essere il principale ostacolo al conseguimento del benessere individuale e collettivo: il «primo fondo della robustezza di uno Stato è la moltitudine delle famiglie, la giusta popolazione: ma quest’istesso ne fa la gloria; genera il rispetto dei vicini, ed è cagione di sicurezza». Genovesi non solo si era adoperato per far fronte alla sottovalutazione e disinformazione del fenomeno, ma aveva anche esplicitato la necessità di attivare politiche di controllo in funzione dell’equilibrio demografico, onde evitare i pericoli dello spopolamento, ma anche i rischi opposti del sovraffollamento. Il pragmatismo e l’esperienza storica suggerivano l’adozione di modelli diversificati, con il ricorso alle pratiche riprovevoli dell’esposizione dei neonati e dell’aborto, alle politiche migratorie verso le colonie, alle attività commerciali, marittime o alle arti, e, infine, al celibato e alle guerre di occupazione, nei paesi sprovvisti di porti e di colonie:
La popolazione del regno di Napoli sarebbe dovuta essere il doppio di quella attuale. Secondo la numerazione del 1764, gli abitanti del Regno erano 3.600.000. Nonostante le numerose morti per la carestia, il Regno registrò una ripresa fino a toccare la cifra di 4.075.499 nel 1770. La sola città di Napoli contava 336.205 abitanti, arrivando nel 1802 ad avere una popolazione di 437.430 abitanti, a cui si aggiungevano oltre centomila abitanti dell’area metropolitana. Tra il 1734 e il 1791 il peso demografico della capitale passò dal 7-8% circa al 12-13%. Nel medesimo periodo il Regno ebbe un incremento fino a raggiungere i cinque milioni di abitanti, con un aumento annuo non superiore al 9%.
Per individuare le soluzioni giuridiche al fine di incrementare la popolazione del Regno in funzione di una più equilibrata distribuzione tra le province e tra queste e la capitale, Genovesi riteneva fondamentale la conoscenza delle «cause spopolatrici»:
La prima sapienza di un Legislatore è di conoscere queste cagioni: la seconda di studiarsi di sterparle, quanto è possibile. Ma per conoscerle gli é necessario di calcolare i mali fisici e politici: per isbarbicarle vuol far misurare le sue terre, saggiare le forze, calcolare i prodotti, accozzare i possibili dell’Arti, e tutti i vizi, che le impiccoliscono, o le attraversano. Dunque la prima Scienza di chi governa è l’Arimmetica Politica: la seconda la Geometria Politica .
Già Ferdinando Galiani, nell’opera Della moneta, si era espresso a favore dell’incremento della popolazione, come strumento di grandezza e prosperità della nazione, sulle tracce di Machiavelli e Botero in Italia e di Le Preste, Melon e Montesquieu in Francia. Egli enucleò i seguenti indicatori per le politiche di sviluppo: buone leggi, a tutela delle libertà e della giustizia; virtù militare e prevenzione contro le pestilenze; tassazione equilibrata; eguaglianza dei patrimoni nelle famiglie, per l’estensione e ramificazione dei casati; indipendenza politica; valorizzazione e promozione dell’agricoltura, in misura maggiore rispetto al commercio. Compito dello Stato era quello di intervenire con leggi, allo scopo di una maggiore distribuzione della ricchezza, mediante il miglioramento della produzione agricola e industriale.
Partendo dalla considerazione della tendenza naturale all’incremento demografico e dei progressi nel campo degli studi in Francia e in Gran Bretagna, Genovesi si concentrò principalmente sull’analisi delle cause, fisiche, morali e politiche, che impedivano lo sviluppo della popolazione. Le «cause spopolatrici», che i governanti dovevano conoscere al fine di porvi rimedio, erano le seguenti: clima malsano; scarsa fertilità o sterilità dei terreni di coltura; non curanza o ignoranza delle tecniche agricole e di espansione del commercio; non attrattività del lavoro agricolo; tassazione iniqua e imprudenza nell’azione governativa con ricadute sulla tranquillità pubblica e sull’armonia sociale, in termini di osservanza della legge ed amministrazione della giustizia, come insegnava un noto adagio visigoto; arretratezza e degrado sociale; epidemie e carattere endemico di alcune malattie; guerre e conflitti sociali; stile di vita celibatario. Tali nove cause furono integrate, in seguito, da una decima causa, che si sostanziava negli ostacoli fisici che affievolivano la comunicazione tra le diverse parti dello Stato e impedivano la circolazione.
Compito primario del legislatore, di fronte alle cause naturali che favorivano la diffusione delle epidemie, era quello di adoperarsi per un’azione, non episodica e localizzata, di difesa del suolo, di regolazione delle acque e di bonifica agraria, garantita da una magistratura ad hoc . Occorreva, poi, indirizzare la popolazione circa l’assunzione di idonee pratiche igienico-sanitarie e alimentari, anche attraverso la promozione della medicina e il miglioramento dell’architettura civile. Per eradicare o contenere gli effetti delle malattie infettive endemiche occorreva una collaborazione tra il mondo medico e quello della politica nel campo sociale e sanitario. Bisognava evitare la pressione dei flussi migratori dalle province verso la capitale, in cerca di ricovero e cibo, e il possibile effetto moltiplicatore dei contagi. In un periodo di graduale scomparsa della peste, le preoccupazioni erano concentrate sul vaiolo. Genovesi sembrava temere la ripetizione delle incomprensioni tra il governo e i medici napoletani, circa la responsabilità delle conseguenze sanitarie dopo la carestia del 1764, e spingeva per una maggiore efficienza della salvaguardia della salute pubblica.
Dopo la riforma borbonica del 1751, con le Istruzioni generali in materia di sanità, esisteva un governo politico della sanità, vale a dire esisteva una primordiale intelaiatura del sistema sanitario del Regno. Genovesi chiedeva ai diversi attori istituzionali di attivarsi per l’introduzione nel Regno dell’inoculazione antivaiolosa. Prima della vaccinazione jenneriana, era una misura di profilassi utilizzata in diverse parti d’Europa, ma che faticava ad essere presa in considerazione a causa di valutazioni di carattere teologico sulla liceità della sottoposizione dell’uomo al rischio del pericolo di morte, ignorando del tutto il bilanciamento tra le ragioni dell’offesa e quelle del soccorso in una prospettiva pubblica corroborata dall’esperienza medica:
è egli lecito di esporre un uomo ad un minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io, di no: troppo sarebbe irragionevole. […] Chi legge la Storia, si persuaderà facilmente, che la Scienza la più necessaria ad un Teologo debb’essere la Geometria, e l’Aritmetica Politiche. È non mi pare nondimeno che n’abbiano mai fatto grand’uso.
La sinergia tra medicina e governo civile andava ricercata anche per il trattamento della sifilide, nota nel regno di Napoli come “mal francese”, perché la sua diffusione era stata collegata alla presenza militare del re di Francia Carlo VIII sul finire del XV secolo:
In tutte le nazioni polite son tollerati i postriboli. Le nostre leggi n’hanno anche regolato i luoghi. Perché non un passo di più? E sarebbe di regolar tutto questo Mercato, perché nuocesse meno. Né credo che ciò fosse difficile. Ma essendo tutte quasi l’altre parti del corpo civile ormai infette, questo mi par che faccia il più difficile del problema. Cresce la difficoltà per la comunicazione degli Stati d’Europa infra di loro. Si richiederebbe un Concilio Ecumenico di Sovrani. Allora resterebbe il secondo punto, come curare un corpo pressoché tutto infetto, con una legge, che salvasse l’onore delle famiglie, e fosse al coverto delle frodi.
Nello studiare il rapporto tra centro e periferia, Genovesi sottolineò la necessità di sviluppare modelli preferenziali in favore del mondo rurale, partendo dal tema dominante della produttività agraria, come fattore di “moltiplicazione” delle famiglie. Il paesaggio agrario doveva essere il riflesso di un nuovo sistema colturale sotteso alla valorizzazione dei terreni aridi, secondo l’esempio prussiano, mentre quello costiero il risultato della promozione del commercio marittimo e della pesca: ma «niun’opera grande divenne mai pubblica, senza il braccio del Sovrano». Le opere di ingegneria per il controllo del regime idraulico dalle sorgenti del Fizzo alla reggia di Caserta avevano dimostrato sul piano tecnico e finanziario la fattibilità di qualsiasi impresa. Bastava convogliare le energie e le risorse nella giusta direzione per aumentare la popolazione in aree sterili e scarsamente abitate. Compito del legislatore era quello di individuare e diversificare le strategie a seconda della produttività in termini di beni e servizi, partendo dalla base dei mestieri più comuni e utili, come caccia, pesca, pastorizia, agricoltura, mineralogia. Nell’analisi della nozione di lavoro produttivo erano, in seguito, contemplate non solo le attività manifatturiere, ma anche le “arti voluttuose” e di lusso.
Genovesi aveva confezionato un concetto dinamico della «giusta popolazione» che legava il suo andamento al rapporto di dipendenza con i mezzi di sussistenza, mostrando tendenze precorritrici delle teorie dei gradi economici e delle forze produttive, nonché vicinanza ad autori come Mirabeau, dai quali si differenziava, tuttavia, per ampiezza ed elasticità di vedute rispetto alla considerazione degli ostacoli fisici e all’analisi delle cause della sterilità. I mezzi di sussistenza dapprima erano tratti esclusivamente dalla terra («arti primitive o necessarie»), poi si fecero largo quelli dipendenti dallo sviluppo delle «arti migliorative o secondarie», di comodo e di lusso. I modelli di Genova, Venezia, Amburgo e dell’Olanda potevano servire da spunto di riflessione rispetto alle attuali condizioni di Amalfi, Bari, Lecce e Otranto, popolate e ricche finché le industrie erano state fiorenti, o a quelle di luoghi, come l’Asia Minore, la Giudea, l’Egitto e la Sicilia, che, nonostante la fertilità originaria, pativano un paesaggio agrario piuttosto spopolato.
Considerata la debolezza strutturale del settore primario e secondario, Genovesi utilizzò, all’interno di una teoria economica costruita sul lavoro più che sullo scambio, un approccio dinamico anche rispetto alla considerazione delle categorie dei beni di necessità, di comodità e di lusso, in relazione ai cambiamenti sociali e al livello di sviluppo dell’economia. Facendo proprio il modello borghese di felicità, Genovesi, al pari di Mandeville, guardava al lusso come conseguenza della civilizzazione e del progresso scientifico e tecnico, nella direzione dello sviluppo della società e del benessere pubblico. I problemi sorgevano, piuttosto, sul profilo dell’adattabilità di criteri adeguati per un modello di società mercantile, come quella inglese oppure olandese, a una realtà diversificata, come quella italiana.
Genovesi, al pari di Montesquieu, escludeva le teorie che avallavano il rapporto virtuoso tra povertà e industriosità dei popoli, nonché tra pesi, personali e patrimoniali, e lavoro. Un popolo di schiavi non poteva mai essere operoso o avvezzo a coltivare le arti. Questa massima era parte integrante del patrimonio giuridico del Regno e si esplicitava mediante il proemio alle prammatiche di Carlo V, dove appariva manifesto quale dovesse essere il compito di un sovrano illuminato: «invigilavit cura nostra subditos et vassallos huius nostri Regni ab omnibus oppressionibus, extorsionibus, indebitis exactionibus liberare».
Contro l’arretratezza, il degrado, e il malgoverno, occorreva avere a cura i fondamentali morali e sociali per un più incisivo progetto riformistico in collaborazione con la monarchia: buon gusto della corte; scuole di lettere e delle arti, a dispetto dello sdegno rousseauiano contro le corps des gens de lettres ; feste e assemblee pubbliche; attrazione di investimenti stranieri; incentivi per soggiorni di studio all’estero, secondo l’esempio del progetto petrino di modernizzare la Russia.
L’istituto matrimoniale era posto a fondamento del corpo civile, contro gli atti sessuali di «venere bestiale», a basamento del popolamento, come «semenzaio degli uomini», e a presupposto dell’incivilimento, potendosi l’individuo nutrire «dalla prima fanciullezza di costumi umani, e religiosi, e divenir atti alla civil compagnia; e oltre a ciò rispettosi delle leggi, e de’ Sovrani». Per tutelare il matrimonio, elevato dal cristianesimo a dignità di sacramento, occorreva una iniziativa pubblica, che non si limitasse ai provvedimenti di esclusione dei figli illegittimi da patrimoni, onori e cariche paterne, ma che intervenisse pure a contrastare un maggiore lassismo nei costumi o libertinaggio, causa di spopolamento e di successivo impiego di manodopera servile, come insegnava l’esperienza storica romana.
Il legislatore sarebbe dovuto intervenire sui consolidati meccanismi di dotazione, sugli onerosi riti relativi alle feste di matrimonio, sull’istituto fedecommissario in funzione di uno schema successorio lineare e primogeniturale, sulla ineguale distribuzione delle terre, che producevano un ostacolo finanziario al matrimonio per le donne e per i cadetti, spinti dalle famiglie di origine alla carriera negli ordini militari e nelle gerarchie ecclesiastiche:
Platone tra l’altre leggi della sua Repubblica richiedeva, che le terre fossero egualmente distribuite. L’egualità è un sogno: ma si può, e dee desiderare, che non regni la troppo sproporzione. […] Maggiore ancora è il male di sproporzione, se le terre si accumulino soverchiamente in mano di coloro, che hanno trovata l’arte di farle uscire dal commercio.
Nella seconda metà del Settecento, l’aristocrazia nobiliare aveva innalzato i livelli delle doti, ricorrendo perfino allo scioglimento dei vincoli fedecommissari, nel tentativo di mascherare la propria debolezza di fronte ai ceti borghesi emergenti, che tendevano ad imitarli nelle questioni patrimoniali, nelle pratiche successorie e nelle scelte matrimoniali. Nella seconda edizione napoletana delle Lezioni di commercio, l’abate salernitano propose l’abolizione dei fedecommessi, della inalienabilità dei feudi e della manomorta, contrapponendo ai privilegi del «bene privato» la funzione pubblica del «bene comune», vale a dire al mal costume e alla poltroneria il buon costume e il lavoro, nella cornice di un ordinamento giuridico fondato sull’unità e uniformità della giurisdizione e del fisco.
L’abate salernitano si dimostrò interessato anche al dibattito francese sulla legalizzazione della poligamia per ragioni demografiche, innescato dalla preoccupazione di una crisi demografica sulla base della “sterilità” delle nazioni cattoliche. Il tema era stato lanciato da Montesquieu nel romanzo epistolare Lettres persanes (1721), alimentato da Jean-François Melon nel racconto orientale Mahmoud le Gasnévide (1729), e contrastato da André Pierre Le Guay de Prémontval, nell’opera La monogamie ou L'unité dans le mariage (1751), tra efficienza della missione procreativa ed uguaglianza degli esseri umani.
Genovesi, secondo una visione di aritmetica politica, si concentrò sull’analisi del rapporto tra modelli matrimoniali, natalità e distribuzione di genere nelle popolazioni d’Europa, Asia e Africa. Il modello della poligamia, oggetto di scontro fra teologi cattolici e polemisti protestanti, non era ritenuto idoneo a risolvere i problemi demografici. Montesquieu nell’Esprit des lois aveva collegato la prevalenza del modello alle aree climatiche caratterizzate dall’eccedenza delle nascite femminili. Genovesi, nell’affidarsi a calcoli che esplicitavano un rapporto tra uomini e donne in Europa, «in ragione di 13 a 12», e nello sfatare alcuni luoghi comuni, escluse, nel modo più assoluto, qualsivoglia ragione favorevole all’introduzione della poligamia simultanea:
è dimostrato per la lunga sperienza dell’Asia che generino assai più figli dieci mariti con dieci mogli, che cinque mariti con le medesime; dunque la Poligamia fra noi sarebbe cagione spopolatrice. […] È nondimeno da considerare, che quando si dice, che in Asia si usa la pluralità delle mogli, e non si vuol intendere della gente bassa, la quale è sempre la maggior parte del popolo; perché questa ordinariamente non prende, che una sola moglie.
4. Conclusioni
L’impatto dell’ideologia economica tra gli intellettuali dell’Italia meridionale aveva prodotto già nel primo Settecento istanze riformatrici, come quelle riferibili alla figura di Pietro Contegna, allo scopo di promuovere la produttività e il commercio, in contrasto con il particolarismo cetuale e gli assetti parassitari. Nella seconda metà del secolo, l’economia politica di Antonio Genovesi fu molto influente, anche al di fuori del Regno. In Spagna molti temi genovesiani furono presi in considerazione nel disegno riformatore di don Pedro Rodríguez de Campomanes, in materia di facilitazione delle comunicazioni, liberalizzazione del commercio dei grani, sostegno della proprietà agricola, introduzione di miglioramenti tecnici in agricoltura, lotta contro gli abusi della manomorta ecclesiastica e considerazione dell’andamento demografico come elemento strutturale della pubblica felicità. La Spagna e il Sud d’Italia avevano strutture, popolazioni e aspirazioni di rinascita similari. Uztáriz e Ulloa influenzarono Genovesi, che, a sua volta, ebbe notevole prestigio presso la cultura mercantilistica spagnola.
Per quanto riguarda il regno di Napoli, Bernardo Tanucci, nel richiamare la vigenza della Const. III, 29 Praedecessorum nostrorum di Federico II di Svevia, impose nel 1769 il principio generale del divieto di acquisto per le chiese e i luoghi pii, vale a dire il divieto di immobilizzazione dei beni, anche se non mancò, in un clima di tensione con le autorità ecclesiastiche, la prudenza governativa delle deroghe e la salvaguardia processuale del possesso protratto nel tempo. In altri termini, le difficoltà oggettive finirono, secondo uno schema consolidato, per attenuare la portata dell’anticurialismo e del giurisdizionalismo napoletano: «Era già molto se uno Stato debole militarmente e condizionato dalla difficile posizione geografica in cui si trovava il regno di Napoli riusciva a contrastare spesso vittoriosamente le pretese ecclesiastiche e comunque a tenere costantemente aperto un fronte polemico con la Corte romana». Un medesimo epilogo ebbero il tentativo di codificazione carolina, il progetto di «Commercio marittimo», le riforme nell’amministrazione della giustizia, con l’obbligo di motivare le sentenze introdotto nel 1774 e abrogato nel 1791, e la legge sui demani comunali del 1792.
L’economia del Regno si caratterizzò nel XVIII secolo per un’agricoltura dominata dalle strutture feudali ed ecclesiastiche, dalla presenza di micro-aziende destinate all’autoconsumo e dal tenore molto basso delle masse rurali. Il commercio, invece, era legato all’esportazione di materie prime e prodotti agricoli e dall’importazione di manufatti. Le parziali riforme introdotte dalla dinastia borbonica, insieme al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e all’aumento del lavoro applicato alle terre feudali, ecclesiastiche e demaniali, con una diffusa proprietà contadina piccola e media di massari e, in qualche misura, di braccianti, contribuirono al favorevole trend demografico nel Settecento, senza raggiungere i picchi di espansione demografica registrati nel XVI secolo e senza centrare, in modo organico, gli obiettivi di rinnovamento auspicati dal Genovesi.
Secondo un’ampia letteratura degli ultimi decenni, il pensiero dell’abate salernitano è ritenuto quanto mai attuale, se lo si osserva dalla prospettiva di «un’idea di economia come incivilimento, legata alle virtù civili (e non solo agli interessi), alla pubblica felicità (e non solo alla ricchezza delle nazioni), che non dimentica il ruolo delle istituzioni (senza diventare hobbesiana)». Il mercato civile assume, così, il carattere di mutua assistenza, dove «lo spirito del commercio produce pace e benessere quando è espressione di socialità umana, di creatività, di innovazioni».
Si tratta, in questo caso, di un’operazione culturale di individuazione delle radici storiche di una visione alternativa dell’economia e del rapporto tra questa e il benessere collettivo o bene comune, in funzione della prosperità della comunità e del territorio, che ha come punti di riferimento il «discorso sulla felicità» di Pietro Verri, le lezioni di «economia civile» di Antonio Genovesi, e la «pubblica felicità» di Giuseppe Palmieri e di Ludovico Muratori. Per Genovesi è enfatizzato l’utilizzo della «philosophy in a typically enlightened way, to clarify the nature of sociability and commercial morality». Chi ritiene ardita questa operazione, rispetto a posizioni sviluppatesi soltanto tra il XX e il XXI secolo, riconosce gli sforzi operati dal Genovesi nella direzione di una «teoria dell’interesse generale».
In questo nuovo orizzonte culturale va inserito il discorso sul fenomeno del declino della popolazione europea e dello spopolamento delle campagne, indagando sul ruolo che deve assumere l’ordinamento politico nelle trame fondamentali del tessuto demografico e dei rapporti tra diritto, etica ed economia. La rivitalizzazione delle zone rurali e dell’economia locale è un argomento complesso, che, tuttavia, intercetta alcuni temi delle riflessione genovesiana, nell’ambito dell’occupazione stabile nelle aree periferiche, della carenza di infrastrutture e accesso ai servizi, della mobilità e migrazioni, della percezione valoriale del matrimonio e della famiglia, della protezione e della sicurezza. Nei processi decisionali europei accanto all’attrattivo modello delle Smart cities, in funzione della sostenibilità ambientale, del miglioramento dei servizi pubblici, della crescita economica e dell’occupazione, si sta facendo largo anche la promozione del modello degli Smart villages, per i piccoli centri urbani e le aree rurali, che prefigura scenari di recupero demografico attraverso il digital divide, la Green economy e il turismo esperienziale, fra storia e tradizione locale, accoglienza, accessibilità e benessere161.
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Restablecimento de las Fabricas y Comercio Español: errores que se padecen en las causales de su cadencia, quales son los legitimos obstaculos que le destruyen y los medios efficaces de que florezca. Parte primera que trata que sea comercio, quales sus partes, y diferencias: qual el que goza España, y el que necessita mantener con las Naciones para el restablecimiento de las Fabricas, y Trafico terrestre: con un Extracto del libro de D. Geronimo Ustariz, Theorica, y Pratica de Comercio y Marina, por Antonio Marin, Madrid, 1740.
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Nota
[*] Il presente saggio, rielaborato e con l’aggiunta delle note, ripropone il testo della relazione tenuta al Congreso Internacional de Fin de Proyecto de investigación “Instrumentos jurídicos para la lucha contra la despoblación en el ámbito rural”, financiado por el Programa Estatal de I+D+i Orientada a los Retos de la Sociedad (Ministerio de Ciencia, Innovación y Universidades. Agencia Estatal de Investigación. Gobierno de España), “Primera sesión, Análisis de la situación de partida, Una perspectiva histórica”, Universidade de Santiago de Compostela, celebrado el 30 de septiembre de 2021 online.
[2] Cfr. Della perfetta conservazione del grano. Discorso di Ferdinando Galiani napolitano pubblicato sotto il nome di Bartolomeo Intieri toscano, G. Silvestri, Milano, 1821, p. IV. Sull’adesione di Intieri al liberismo di Melon, .
[3] Sulle vicende relative all’istituzione della cattedra intierana nello Studio pubblico napoletano, .
[7] . Villava scrisse nel 1797 Apuntes para una reforma de España, un’opera che circolò in forma manoscritta, fino alla sua pubblicazione a Buenos Aires nel 1822 da parte di Ignacio Castro Barros, come manifesto della cultura illuminista sudamericana. Proponeva un piano di riforme della monarchia spagnola in funzione dei rapporti con le colonie americane, al fine di impedire gli abusi e di scongiurare una rivoluzione. Per un’edizione critica degli Apuntes, cfr. ibid., pp. 64 ss.
[20] . Sull’opera scientifica e riformistica di Pedro Rodríguez de Campomanes, ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; .
[28] . I testi delle prammatiche regie sono consultabili alle pp. 137-146. Per una documentazione generale sugli effetti della carestia, sulle responsabilità dei Seggi nobiliari partenopei e sull’azione di governo del Tanucci, circa l’istituzione della Giunta dell’Annona e il ricorso al mercato internazionale dei grani, ; ; .
[47] «Sapremo perché? Perché ivi più, e meglio, si coltiva, dove più la coltivazione rende; ed ivi più rende, dove è più scolo; né vi può essere scolo, dove non vi è libertà di Commercio» (ibid., pp. 39-40).
[61] . Per effetto dell’influenza della scuola genovesiana, nel 1785 fu abolito a Napoli il tribunale della Grascia, che controllava le esportazioni di grano. . Disponibile su: <https://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-de-gennaro_%28Dizionario-Biografico%29/>. Consultato il: 2 sett. 2021.
[63] : «la massa demografica napoletana che, ai primi del XVI secolo, contava circa 150.000 abitanti (ciò che era già sufficiente a porla, insieme a Parigi, in testa alla classifica delle grandi città europee) passa a più di 210.000 nel 1547, a circa 280.000 nel 1606 (primato assoluto in Europa) ed a più di 300.000 alla vigilia della grande peste del 1656». Le cifre per il Regno erano, invece, le seguenti: 254.823 fuochi nel 1505; 422.030 nel 1545; 540.090 nel 1595; 500.202 nel 1648 (ibid., p. 10).
[69] Sulle leges regis Numae Pompilii, ritenute dalla tradizione come il più antico corpus normativo della storia di Roma, ancor prima delle XII Tavole, .
[72] Le edizioni utilizzate dal Genovesi erano le seguenti: ; . Sul tema demografico in Gran Bretagna ; .
[78] L’economia politica è considerata come «scienza di liberazione: dal bisogno, dalla disoccupazione, dal sottosviluppo, dalla ignoranza, dalle credenze infondate, dai vincoli internazionali, dai privilegi dettati dal potere politico, dalle posizioni di sudditanza» ().
[79] «Di qui anche una visione sociale che contempla un ruolo eminente per un’aristocrazia fatta di gentiluomini che fossero tali non perché membri della feudalità o del patriziato o di una qualsiasi nobiltà istituzionalmente riconosciuta, ma per la parte che consapevolmente svolgessero nella vita economica e sociale ai fini del progresso e della modernizzazione e per la disponibilità di risorse convenienti a un tale scopo. Una tale classe era, per definizione aperta e dinamica, e vi si poteva entrare sia dall’alto che dal basso della scala sociale, senza garanzie privilegiate di restarvi se non la propria funzione» ().
[82] . «È il modello anglo-franco-olandese quello che per lui, storia moderna ed esperienza contemporanea alla mano, fornisce l’indicazione più piena del moderno. Un modello in cui l’economia viene fondata su uno stretto rapporto con l’innovazione scientifica e tecnica. […] Quello che abbiamo insistito nel definire empirismo e pragmatismo della posizione assunta dal Genovesi sul problema dell’arretratezza del Regno e della linea di governo dell’economia che volesse affrontare quel problema si risolve, dunque, nella proposta, in parte implicita, ma nella massima parte esplicita, di una politica impegnativa e complessa di riforme. Era una politica da tardo mercantilismo? O era un conformarsi al neomercantilismo spagnolo, francese ed inglese? Oppure un precorrimento della fisiocrazia? O, ancora, puro e semplice eclettismo? Quale che fosse, era tutto fuso in un problema di vita, nonché di solo pensiero» (.). Sull’eclettismo “programmatico” di Genovesi, .
[90] Su questi aspetti . Lo storico ha rilevato per l’Italia meridionale il ricorso eccessivo ai patti colonici, che aggravavano le condizioni di vita dei coltivatori e favorivano lo sviluppo dell’usura.
[104] Sul rapporto tra il riformismo borbonico e la cultura illuministica napoletana, : «Durante l’ultimo quarto del secolo XVIII l’alleanza tra gli uomini di cultura e la Corte, pur mostrandosi in apparenza – secondo la formula idealistica e celebrativa di Gaetano Filangieri – come la “filosofia in soccorso dei governi”, subì oscillazioni, momenti d’arresto, arretramenti e sostanziali smentite, insomma si presentò come una linea ondivaga, ripetutamente spezzata». .
[108] . «Lo Stato veglia, affinché le giuste proporzioni, determinanti l’equilibrio, non abbiano ad alterarsi; e interviene per ristabilirle, ogni qual volta si modifichino. […] Si può dire che il Genovesi, nella ricerca degli accennati rapporti proporzionali fra popolazione e terre, denaro e beni, bisogni con la qualità e quantità dei beni, forza concentriva e forza diffusiva, classi produttive direttamente e classi produttive solo indirettamente ecc., miri a delineare la «ottima combinazione» tra i fattori produttivi e in genere fra tutti gli elementi della vita economica e sociale» ().
[115] Cesare Beccaria negli Elementi di economia pubblica (1769) si occupò del fenomeno demografico, dalla prospettiva genovesiana dell’eliminazione delle cause fisiche e morali che ne ostacolavano lo sviluppo. Cfr. Ibid., pp. 556-558.
[118] In edizioni successive dell’opera genovesiana compare l’integrazione circa il riferimento ai Regi Lagni, che identificano una complessa opera di bonifica e canalizzazione nella pianura campana, iniziata in epoca romana e realizzata nel suo assetto definitivo tra il XVI e il XVII secolo (). .
[122] La riflessione intorno all’organizzazione igienico-sanitaria delle Sicilie, in conseguenza della peste di Messina nel 1743, aveva avuto tra i principali punti di riferimento l’opera di . Sui rapporti tra medicina e politica cfr. ibid., pp. 480 ss. Sulle leggi sanitarie borboniche, .
[123] L’immobilismo generalizzato fu fatale nell’epidemia di vaiolo del 1768. La prima inoculazione fu praticata a Napoli soltanto nel 1772 da Angelo Giuseppe Maria Gatti, professore di medicina nell’Università di Pisa e, dal 1761 al 1771, medico consultore del sovrano francese a Parigi, nonché riconosciuto luminare nel campo delle pratiche antivaiolose, insieme a Robert Sutton junior. .
[129] . Cfr. anche C. PERROTTA, Il contributo di Genovesi alla teoria illuminista dello sviluppo, in Alle origini del pensiero economico in Italia, I. Moneta e sviluppo negli economisti napoletani dei secoli XVII-XVIII, a cura di A. RONCAGLIA, il Mulino, Bologna, 1995, pp. 73-96.
[132] Genovesi aveva elaborato un piano di riforme dopo l’espulsione dei Gesuiti dal Regno, nel quale si teneva in gran conto il ruolo dell’istruzione tecnica e agraria.
[133] . : «Consapevole di rappresentare il parere pressoché unanime di tutti i protagonisti del movimento illuministico italiano, orgogliosamente erede delle élites intellettuali dell’umanesimo rinascimentale, l’abate napoletano sferzava il ginevrino accusandolo di primitivismo, di sottovalutare la funzione emancipatoria dell’incivilimento tramite le lettere, le scienze, le riforme dell’educazione»
[134] Per il cerimoniale napoletano come «specchio della dignità reale di Spagna», . Per il ruolo delle manifestazioni ludiche, in merito alla trasformazione della concezione del potere del monarca nella seconda metà del XVIII secolo, .
[142] . Alcuni studiosi hanno rilevato delle similitudini tra il pensiero di Genovesi e quello di Spinoza, in merito alla formulazione del dovere dello Stato di provvedere al bene comune. .
[144] . In seguito, furono introdotti nell’opera genovesiana i riferimenti alla confutazione del collegamento della crisi demografica dell’Europa settentrionale, definita «vagina gentium» dal Grozio, con l’introduzione della monogamia nel Medioevo. Genovesi prendeva maggiormente in considerazione, invece, l’impatto negativo del celibato delle donne, a partire dal XII secolo (). Questi temi erano stati affrontati sull’onda del successo dello studio di Ludwig .
[150] . Riguardo al Genovesi, la storiografia ha evidenziato la ripresa della tradizione giannoniana, inquadrata all’interno di un approccio storico-economico e giuridico (). , in . Per un’analisi del giurisdizionalismo ampliata all’intero contesto italiano, .