Non è semplice tratteggiare la figura di uno dei più grandi studiosi e intellettuali del nostro tempo, di Francisco Rico, del critico, del filologo, dell’uomo e del personaggio sospeso fra realtà storica e «finzione letteraria», preceduto da un’aneddotica quasi mitica di gesti e parole, che ben conoscono i colleghi, gli allievi, gli amici, che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo. I tratti dell’uomo non si possono scindere da quelli dello studioso e la sua vita non può prescindere dalla sua traiettoria letteraria, entrambe animate dalla medesima passione, dal medesimo senso della sfida intellettuale, da un’irriducibile vocazione al dubbio e alla complessità che nell’Ateneo di Bologna lo ha fatto dialogare, fra gli altri, con grandi maestri come Ezio Raimondi, Emilio Pasquini e Umberto Eco. Allievo di José Manuel Blecua e Martín de Riquer, Rico si è ben presto accostato in Italia al magistero filologico di Guido Martellotti, Giuseppe Billanovich e Gianfranco Contini, che insieme alle voci di Vittorio Rossi, Remigio Sabbadini e Pierre de Nolhac, hanno rappresentato una stagione di irrepetibile fecondità per gli studi petrarcheschi e di filologia medievale e umanistica.
La figura di Francisco Rico, come ha detto lo scrittore spagnolo Javier Cercas, è difficilmente collocabile, è cosa diversa rispetto a quella di altri pur illustri studiosi; lo è perché egli si pose al tempo stesso come «eccentrico» e «centrale», per il suo aver saputo aprire di continuo nuovi orizzonti nel panorama della cultura e della conoscenza contemporanee spesso però dal particolare punto di osservazione, come il suo Petrarca da Valchiusa, della «solitudo iocundissima» della sua periferica dimora di Sant Cugat. Il senso della sfida intellettuale, dunque, e la vocazione al dubbio e alla complessità sono stati il volano della ricerca e della prospettiva critica di Rico, sempre sorretto, come è stato detto, dal felice binomio di «rigore e audacia».
Fu quel senso di sfida a muovere le prime ricerche di Rico sul Petrarca latino ―a cui lo aveva avviato il suo maestro Martín de Riquer― dopo l’uscita della seconda edizione della monografia Francesco Petrarca di Umberto Bosco (1961). Bosco si avvedeva allora, con qualche rassegnazione, di come nella produzione del Petrarca (tanto volgare quanto latina) fosse impossibile scorgere una netta linea evolutiva, tracciare con chiarezza uno sviluppo cronologico, per i giochi di specchi, di false tracce, di simulazioni che il Petrarca stesso mise costantemente in atto nella volontà precisa di lasciare un ritratto esemplare di sé, depistando sempre e spiazzando in qualche modo il suo lettore. E’ questo il motore che anima fin dagli anni giovanili il serratissimo lavoro filologico ed ermeneutico di Rico volto a un dialogo costante ed esemplare sui testi petrarcheschi che approda negli anni Settanta al volume sul Secretum e sulla vita e l’opera del Petrarca (Vida u obra de Petrarca), che cambiò definitivamente la prospettiva degli studi sul grande poeta, mettendo contestualmente in campo una metodica di ricerca magistrale e fortemente innovativa.
Tratteggiando, poi, quadri di ampio respiro della civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano ed europeo, Rico riuscì da sempre a far dialogare armonicamente due prospettive critiche a lungo in contrapposizione dialettica tra di loro, vale a dire quella sincronica e filologica di Kristeller e Billanovich con quella diacronica, storica e filosofica di Eugenio Garin, in una scrittura saggistica dove lo spirito ecdotico e critico si coniugava con l’anima della creazione romanzesca, della vera passione per la parola narrante: si pensi solo al titolo stesso del suo celeberrimo volume Il sogno dell’umanesimo, in cui la prosa di Rico ha la durezza, la trasparenza e l’esattezza del cristallo.
Che egli si addentri negli intricati probemi filologici del Chisciotte, del Lazarillo, della Celestina e della novella picaresca o nelle questioni interpretative del Petrarca e dell’umanesimo italiano ed europeo, la forza della prospettiva critica di Rico è stata nel suo rifiuto di un metodo costituito «a priori» e nello scavo ostinato invece di una interrogazione ermeneutica capace di calarsi nella storia unica e irripetibile di ogni singola opera e di ogni singolo testo e di ogni sua, anche minima, peculiarità materiale; un metodo, per così dire, che non si configura mai come «sistema» se non dinamico, in cui il rigore della filologia si nutre sempre alla fonte della teoria letteraria, della prospettiva comparatistica e del contesto storico di riferimento. Come straordinariamente ci ha insegnato, ad esempio, nel volume Biblioteca spagnola, edito in Italia da Einaudi nel 1994, che resta pietra miliare non solo per gli studi di ispanistica ma per gli studi letterari europei tout court. E come ci ha mostrato nella altrettanto straordinaria, innovativa edizione critica del Chisciotte in Italia edita nel 2012 da Bompiani nella Collana dei Classici europei.
E’ proprio, del resto, del metodo errante e inquieto di Rico questo aprirsi della filologia alle ragioni del contesto, alla forza dell’interpretazione, al ruolo del lettore e del valore aggiunto che questi conferisce all’opera. Le edizioni curate da Rico (ha fondato e diretto il Centro para la Edición de los Clásicos Españoles) e i numerosissimi contributi critici sul Chisciotte, sul Lazzarillo de Tormes, sulla Celestina, sulla novella picaresca e sull’umanesimo italiano ed europeo, sono pubblicati e tradotti in tutto il mondo. Come editore di classici Rico ha saputo mettere in primo piano, accanto ai diritti del testo e a quelli dell’autore, anche quelli del lettore (ormai classica è diventata, ad esempio, la sua provocatoria proposta di lectio fertilior, nei casi di indecidibilità tra due lezioni adiafore: la lectio fertilior è la lezione che comporta una maggior implicazione del lettore).
Ma chi ha conosciuto Rico editore sa anche dell’attenzione quasi ossessiva e della cura quasi maniacale che egli dedicava al particolare più minuto del paratesto del libro (dal formato, alla carta, al carattere, ecc.), come fa chi non disdegna di ricorrere, da lettore, all’e-book, ma che si assume, da editore, la profonda responsabilità etica e intellettuale di un’operazione estetica e culturale. Persino la veste grafica e la punteggiatura da lui scelte per il capostipite di tutti i romanzi moderni contribuiscono in maniera significativa a restituirci la linea scorrevole e dialogica della scrittura di Cervantes, il suo procedere quasi in un flusso continuo, in una lingua che pare assecondare la veloce disponibilità di un narrare che egli sapeva essere spesso affidato, a quei tempi, alla voce.
D’altra parte, Rico è stato anche il filologo e il critico che da più di quattro decenni ha saputo rileggere creativamente la letteratura del passato per intervenire sul presente. Come è stato detto, Rico è «un caso raro di studioso al quale l’erudizione non ha affievolito il gusto letterario, di un critico che sa che la buona critica serve alla creazione e non si serve di quella, uno specialista del medioevo e del Siglo de Oro con la passione per la letteratura contemporanea». Sono, queste ultime, parole del Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa, che ha tracciato, in un articolo comparso su El País nell’aprile del 1996, un ritratto suggestivo dello studioso: «con puntualità astrale ―dice Vargas Llosa― mi arriva fra le mani un saggio sul Lazzarillo, o sul Quijote, o sull’umanesimo o su Petrarca del mio caro amico Francisco Rico. E me lo immagino, allora, magro e instancabile, nella sua casetta di Sant Cugat del Vallès, tra montagne di libri, con gli occhi affaticati nella lettura di libri antichi, intento a scarabocchiare carte con la sua grafia a tela di ragno».
In virtù del suo indiscusso magistero scientifico, della sua costante partecipazione ai dibattiti culturali e civili di respiro europeo e del suo singolare carisma umano Rico è stato infatti un «personaggio»/protagonista e come tale appare nei romanzi di Javier Marias e di altri scrittori spagnoli. Javier Cercas, che è stato suo allievo all’università di Barcellona, ricorda come gli studenti lo guardassero con «panico e devozione» creando intorno alla sua figura di «Pico della Mirandola spagnolo» una ricca e proverbiale aneddotica, letteralmente sopraffatti dalla fascinazione con cui sapeva squadernare l’intera cultura occidentale esaminando magari un solo verso del Libro de Buen Amor. Nel marzo del 1996 Francisco Rico entrava, credo per la prima volta, nel Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna: venne per partecipare, invitato da me e da vari giovani ed entusiasti studiosi, a un Seminario sulla narrativa italiana fra Trecento e Settecento (i cui Atti confluirono nel 1998 nel volume edito da Carocci, Dal primato allo scacco) che risultò un appuntamento di straordinario rilievo per quegli studi grazie soprattutto alla illuminante relazione di Rico. Eravamo all’inizio un po’ intimiditi dal grande studioso: ma la convinzione con cui aderì e partecipò a quell’appuntamento, la simpatia del tutto ricambiata che immediatamente mostrò per quel nucleo di studiosi bolognesi, lo sprone e l’interesse sincero, affettuoso e senza fronzoli retorici per quei giovani che si stavano allora avviando per i sentieri impervi della ricerca (e oggi infatti per fortuna in gran parte docenti nelle Università italiane) ce lo resero rapidamente amico imprescindibile e in modo crescente negli anni avvenire. Il dialogo con l’Alma Mater e col nostro Dipartimento continuò e crebbe sempre più: la sua lezione umana e critica al tempo stesso, da grandissimo studioso e incantevole, ironico intrattenitore, ha contribuito a formarci, aprendo tante strade di ricerca specie sul fronte degli studi petrarcheschi, filologici ed umanistici in sodalizio costante con Loredana Chines e col gruppo dei suoi allievi e concorrendo in modo decisivo a fare dell’Alma Mater uno dei centri internazionali più rilevanti della moderna filologia. Per anni il dialogo con Maestri come Francisco Rico, Alfonso Traina, Enzo Degani, Emilio Pasquini ed Ezio Raimondi ha consentito infatti a tanti di noi di riaprire con grande profitto lo spartito dell’Umanesimo bolognese o quello degli studi sulla ricezione dei classici antichi a partire da Petrarca o ancora sugli ineludibili sentieri europei delle letterature rinascimentali, portandoci anche a significative edizioni di testi umanistici e alla creazione di collane rigorose ma accessibili (secondo il monito di quei Maestri) dei classici italiani.
Con la fondazione, nel 2003, qui a Bologna presso il nostro Dipartimento (Editore Carocci), della rivista Ecdotica, come « luogo di incontro di autori, testi e lettori» e con altre iniziative ―come l’elegante collana «Arezzo e Certaldo» pubblicata da Antenore― spesso decise fra un gin tonic e una cena nei ristoranti bolognesi, Rico ha consacrato, con generosità e amicizia veramente straordinarie, il suo sodalizio con Bologna, vivificando un’antica e fertile consuetudine culturale della nostra città e del nostro Ateneo con la Spagna e con gli sudiosi spagnoli (il celebre Collegio di Spagna fondato nel Trecento dal Cardinale Egidio Albornoz e ubicato nel cuore di Bologna, spesso frequentato da Rico come da altre grandi personalità spagnole). Grazie alle pagine di Ecdotica e alle voci che vi si sono intrecciate e susseguite negli anni (anche con un vero scambio intergenerazionale) la filologia italiana ha dialogato e tuttora dialoga con la bibliografia testuale di scuola anglosassone, affrontando questioni di cruciale importanza: appunto dalla bibliografia testuale al diritto d’autore, dal commento ai testi alle Digital Humanities (di cui quella Rivista fu tra le antisegnane in Italia e subito imponendosi nel panorama internazionale), aprendo orizzonti sempre nuovi e coniugando, nel metodo, l’irriducibile individualità di ogni dato e problema testuale con la necessità di una visione pluriprospettica. E’ stata proprio una lezione critica come quella di Francisco Rico che ci ha insegnato come continuino ad essere decisivi oggi gli studi umanistici, come il suo «sogno dell’Umanesimo» ci sia coessenziale per tentare di orientarci in un mondo così lacerato ed incerto sul suo futuro. Per tutti questi motivi l’11 aprile del 2016 l’Università di Bologna, su proposta unanime del nostro Dipartimento, gli conferì la laurea magistrale ad honorem in «Italianistica, Culture letterarie europee, Scienze linguistiche» in una straordinaria cerimonia dove Rico si commosse sinceramente: quella laurea infatti, cui fu sempre legatissimo, veniva come a suggellare il suo forte e strettissimo rapporto con Bologna e la sua comunità di studiosi. Dieci anni prima, nel 2006, sempre su proposta mia e del nostro Dipartimento, la stessa laurea l’avevamo conferita ad un altro grande Maestro e intellettuale europeo, George Steiner, anch’egli felicissimo di venire «laureato» nell’Ateneo più antico del mondo. Ed è per noi a Bologna un grande motivo di orgoglio quello di aver potuto dare un riconoscimento così significativo, in un decennio, a due fra i più grandi intellettuali europei del nostro tempo.
Molto altro si potrebbe dire di Francisco Rico, dello studioso, dell’uomo, dell’amico, della figura di questo eccentrico hidalgo della critica spagnola che sembrava talvolta confondere i propri contorni con quelli del «personaggio» che il suo sguardo penetrante di filologo e di lettore ha saputo restituirci a tutto tondo.
Non sappiamo se la fama del Professor Rico, come vuole una battuta di Javier Marias nel romanzo Nera schiena del tempo, sarà destinata a durare più per il suo essere personaggio «romanzesco» che per la sua impareggiabile lezione di critico e di filologo; ma, in fondo, è un falso problema, inscindibili come furono nell’amico e maestro «Paco» Rico, biografia e bibliografia, Vida u obra. Per me, per noi, studiosi ed allievi bolognesi, il ricordo del Maestro di studi e dell’amico sfuma in un unico, commosso ricordo e la pungente nostalgia dei tanti momenti trascorsi insieme è attenuata dall’orgoglio e dal piacere di aver potuto conoscere e frequentare una delle più importanti personalità dei nostri tempi.